giovedì 25 luglio 2019

El Hombre De Al Lado - Gaston Duprat (Argentina 2009)


   Chi è Leonardo Kachanovsky. A dispetto del suo cognome, Leonardo Kachanovsky è un designer argentino di successo, vive a Buenos Aires in un raffinato appartamento disegnato da Le Corbusier in persona  insieme  alla moglie Ana (un’annoiata e repressa insegnante di Yoga piena di fisime e di pretese tanto ridicole quanto assurde), la figlia adolescente Lola con la quale non riesce a scambiare nemmeno una parola (ottima rima!) che vive dentro le sue cuffiette hip-hop e ignora nobilmente i tentativi del padre di instaurare con lei un qualunque tipo di rapporto, e una domestica mite e laboriosa alla quale da del “lei” e che lo asseconda stoicamente, forse mascherando con mestiere il suo velato, onesto disprezzo per “el señor”. Leonardo e sua moglie di tanto in tanto ricevono in casa: i genitori di lei che se la spassano con la nuova videocamera comprata nell’ultimo viaggio a Roma,  amici un po’ tonti che si bevono tutte le elucubrazioni acculturate di lui in ambito musicale, oltre che alle ragazze del corso di Yoga (Ana) e gli studenti iscritti al corso universitario di designer ai quali Leonardo non risparmia praticamente nulla, né in termini accademici, né in termini di rispetto ed educazione, e neppure (in caso di allieve carine) in termini di esplicite attenzioni diciamo poco commendevoli.

   Chi è Victor Cubello. Si presenta in abito da lavoro con un vocione da basso, faccia cattiva, un tipo da “pane-al-pane” che sta lavorando e che è disposto a interrompere i suoi lavori di ristrutturazione solo per buonissimi motivi . Scappa fuori da un buco nella parete giusto davanti alla vetrata dello studio di Leonardo perché  vorrebbe aprire una finestra per ricevere un po’ più di luce, e perché pare non dare alla “privacy” la stessa importanza del suo nuovo vicino.
Fin qui sembrerebbe tutto chiaro: Leonardo è un onesto uomo ammantato del suo prestigio che vede insinuarsi nel suo destino le orme puzzolenti di un troglodita dai modi sbrigativi arrivato lì  per caso a rovinargli la vita.

   Ma Gaston Duprat è un regista ed autore intelligente, spiritoso, arguto: in modo lento ed inesorabile, la figura del prode architetto assume le forme dell’uomo meschino, vigliacco, incapace, forte coi deboli e debole coi forti, che sa abbaiare solo da lontano e che da vicino, invece, se la fa addosso e cala le braghe a suon di bugie, sotterfugi e pugnalate alle spalle. Mentre il rozzo “Hombre de al Lado”, dal quale lecitamente ci si aspetterebbero le peggiori reazioni volgari e violente, si dimostra ragionevole e, a modo suo (modo che Duprat abilmente nasconde fino alla fine), sincero, disponibile al compromesso, forse addirittura amichevole.

   Due opere d’arte. Una poltrona di lusso, futuristica, che ha ottenuto grande successo alle Biennali in giro per il mondo e che Kachanovsky sa a mala pena raccontare in una maldestra registrazione televisiva o attraverso il suo sito internet pulitino-pulitino, e “L’Origine”, la scultura che Chubello ricava da pezzi di fucile, chiodi e cartucce, assemblata in rosso-cerato a formare un utero/vagina ispirata dal  ricordo della sua “putissima madre” e della quale si onora di far dono a Leonardo: in questa contrapposizione sta la chiave di questo pregevolissimo film, l’arte dell’opportunista codardo contro l’arte della persona semplice, la forma del torbido contrapposta al chiaro, in un gioco di luci, prospettive e situazioni che, portandoci ad un finale a dir poco sorprendente del quale sarebbe criminale anticipare alcunché, suscita nello spettatore la lecita domanda di chi sia davvero “al lado” di chi.
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giovedì 18 ottobre 2018

Down Terrace - Ben Wheatley (UK 2009)


    “Causticamente divertente” (come viene definito nel lancio  dalla sua stessa locandina),  prima di dare alle stampe tutti quei film che gli daranno in seguito un certo credito oltra ad un minimo di notorietà e di successo (il perfido “Kill List” nel 2011, gli ostici e un po’ crudi  “Sightseers” e “A Field in England” rispettivamente nel 2012 e 2013, fino al divertentissimo “Free Fire” nel 2016) nel 2009 Ben Wheatley, regista inglese a mio parere molto interessante, si presentò con questo “Down Terrace” che, nonostante alcuni lusinghieri riconoscimenti di Festival minori, non riuscì ad andare, in termini di distribuzione, molto più in là rispetto ai soliti confini anglofoni e Regni (dis)Uniti limitrofi, oltre a qualche eccezione per l’Europa dell’estremo nord, Russia compresa. Peccato, perché a mio parere  tra i film di Wheatley (per essere più esatti: tra quelli che ho potuto vedere io e che ho  citato sopra)  trovo che “Down Terrace” sia sicuramente il più pregevole, quello meglio riuscito ed il più “promettente” di tutti. Con questo non voglio dire che il livello del lavoro complessivo di Wheatley sia andato col tempo abbassandosi, ma è come se “Down Terrace” corrispondesse all’uovo (liscio, levigato, perfetto, simbolo primordiale  insostituibile e inattaccabile pur nella sua fragilità) e tutti gli altri lavori ai problematici, pigolanti tentativi di farsi strada nel duro mondo delle aie cinematografiche. Resta comunque assodato che da un regista come Wheatley non sai mai cosa aspettarti quando lo vai a vedere (non è necessariamente un merito, ma nel nostro caso direi di sì), e che comunque difficilmente ne resti deluso.

    “Down Terrace” è a mio parere molto più che “caustico” (io lo definirei “crudele” se non si rischiasse così di spoilerare) , mentre per convergere sul “divertente” dovrei (at)tentare a citazioni  troppo azzardate per un  cinefilo  dilettante come me (butto lì un nome come Tarantino, o un titolo come “Carnage” di Polansky chiudendo gli occhi e incrociando le dita...). Ma è un film che ha soprattutto due pregi: quello di saper complicare con semplicità una vicenda familiare psicologica truccandola da  “Spy Story” (o viceversa) la quale  non è mai una Spy Story se non quando la camera non si decide a  fermarsi, indugiando  su qualche riflessione a voce alta dei suoi protagonisti; e quello di saper accompagnare la narrazione attraverso i testi e le musiche folk della pregevolissima colonna sonora, alla quale si aggiungono i siparietti  musicali domestici dove le chitarre e gli altri strumenti, mai perfettamente accordati tra loro, rimandano a quello scalino di disarmonia che appare lieve, ma che, nell’epilogo tragico ed agghiacciante, sarà alla fine la misura di quanto possa essere fondamentale ogni minimo dettaglio in contesti fattisi così delicati e precari.

   Una prova di equilibrismo, in sintesi. Un film che cammina sul baratro fischiettando con malcelata indifferenza, che  della bellezza della natura a ridosso della città riesce a cogliere solo “il buon profumo di merda” (scusate, è citazione più o meno testuale...), mentre delle relazioni familiari e del loro valore va perdendo tutto fino alle estreme conseguenze, come nei versi di quell’ultima canzone che canta dell’archetipico perdersi nel bosco di quei  due bravi bambini.

   Doverose infine le congratulazioni a tutto il cast, in particolare al duo Robert e Robin Hill, padre e figlio nella vita come nel film, con l’inquietante Robin anche in veste di co-sceneggiatore della storia insieme al regista.  
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domenica 17 dicembre 2017

Loveless - Andrey Zvyagintsev (Rus-Fra 2017)

    E’ una boscaglia prostrata e fredda estesa più in orizzontale che non verso l’alto, una periferia fluviale arida e dall’aspetto morente, specchio di un abbandono, di una resa dei bei sentimenti,  l’incipit (e pertanto la misura) di questo bellissimo film.  

   Quand’anche nella vita dei suoi congelati protagonisti tentasse di inserirsi nuova linfa (i due coniugi entrambe alle prese col tentativo di ricostruirsi una nuova vita affettiva), ecco che  sul davanzale di Masha (la nuova donna di Boris) compare una piantina verde il sui esile fusto si flette di novanta gradi già a pochi centimetri dal bordo del vaso, e che tutto ciò che riesce a  fare Anton (il nuovo uomo di Zenya) per stare vicino a sua figlia è quello di utilizzare le video chiamate di Skype.  Ed anche senza l’alibi delle nuove tecnologie de-socializzanti (massiccia lungo tutto il film la sottolineatura dell’alienante uso degli smartphones), ecco che anche con una madre d’altri tempi, campagnola e senza cellulare, ogni rapporto affettivo, o anche di semplice e reciproco rispetto,  è impossibile.

“Loveless” è senza amore da capo a piedi, spietatamente, in ogni risvolto, dietro ogni angolo, al di là di ogni possibile soluzione/redenzione; è freddo anche quando nasce un nuovo amore, un nuovo figlio, è freddo fin nello spirito di uno squadrone di pur benemeriti volontari, silenti e robotici, che setacciano l’ambiente alla ricerca del piccolo Alyosha come se fosse un’azione militare, è freddo nelle risposte della polizia, nelle sale degli ospedali, nell’orrore gelido degli obitori, dove, solo per un attimo, l’orrore non per ciò che vede, ma per ciò in cui, vedendolo, il “Loveless” sedimentato e incrostato  si riconosce, lascia esplodere, in Zenya prima e in Boris poi, un pianto gridato e sanguinante che li costringe a coprirsi il volto, forse più per la vergogna misconosciuta provata verso se stessi che che non per quell’orrore (solo apparentemente estraneo) che hanno appena dovuto osservare, e dal quale, forse, capiscono per un breve momento di non avere scampo.

   Impressionante la ferocia con cui Andrey Zvyagintsev morde questa vicenda ad ogni sequenza, ad ogni battuta, ad ogni sguardo scambiato od evitato; impressionante la profondità che riesce a raggiungere tale ferocia quando il bersaglio tenta di nascondersi dietro una patinata “hi-society” di una Russia moderna, dei suoi ristoranti di lusso e dei suoi reportage di guerra sceneggiati dai telegiornali, oppure sotto/sopra le lenzuola di amplessi tanto esagerati da divenire essi stessi testimoni di malessere e di palese mancanza d’amore.    

   Pluripremiato nelle migliori sedi, ma solo per il momento (aspettiamo i Golden Globes e, perché no, anche oltre). Imperdibile.
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venerdì 24 febbraio 2017

Paterson - Jim Jarmush (Usa 2016)

    Paterson è Paterson. Paterson è moltiplicato per due, in quanto essere gemelli, a Paterson (città) sembra quasi una cosa inevitabile. Anche Paterson (lui) e sua moglie Laura, più che una coppietta felice, danno spesso l’idea di essere due complementari identici, di origine monozigotica, fatti l’un per l’altra non dalla volontà, ma da un benevolente destino, dalla trama di un racconto fantastico solo accidentalmente tanto simile alla realtà. 

    Jarmush ci ha abituati a camminare su questo crinale, sul confine tra immaginato e vissuto, tra ciò che è solo probabile e ciò che sembrerebbe certo. Ha impostato così molti dei suoi film, a partire da quello del suo esordio: “Stranger than Paradise” (al quale questo “Paterson” somiglia molto: strutturato in “strisce”, molte dissolvenze al nero) era anch’esso una favola, una concretissima favola, e se nel finale di “Stranger” Jarmush scelse di non mostrare “l’Angelo” che procurò la fortuna di Eva, stavolta questa “Entità” prende corpo nei panni di un improbabile turista giapponese appassionato di poesia, attraverso il quale Paterson può risorgere a nuova vita dopo l’incontro con “il Male”.
    Un “Male” naturalmente sempre molto “leggero”, com’è nello stile del regista (mai vampiri “seri”, cioè escludendo quelli delle saghe per ragazzetti, sono stati leggeri come quelli di “Only Lovers Left Alive”, ugualmente dicasi per i mafiosi di “Ghost Dog” ), tanto leggero che spetta ad un simpaticissimo Bulldog inglese (Marvin) il compito di interpretarlo.  Marvin (elemento cardine nella sceneggiatura) non è il solito cagnolino che fa le feste quando torna a casa il padrone, o che smania per il suo giretto serale, o che corre dietro ad una palla: Marvin vive di brevi grugniti sopra la sua coperta (l’unica cosa colorata dentro una casa tutta in bianco e nero, tanto per sottolineare la sua peculiarità), obbedisce e non obbedisce con la stessa indifferenza e il medesimo distacco, e non a caso è oggetto di attenzione, in una scena, dell’unica incursione malefica, dell’unico vento negativo (una macchina di teppistelli che lo adocchia di sfuggita) che soffia per un istante nel clima mite e pacato di una comunità tranquilla dove, solo in apparenza, non accade nulla, o almeno, nulla di male.
E proprio Paterson (città) è un luogo che solo Jarmush poteva scegliere, metafora del suo cinema: tranquilla cittadina del New Jersey (Wikipedia le assegna 130 mila abitanti), sulla carta una periferia del mondo senza ruoli di rilievo nella Storia d’America, nasconde invece nelle pieghe della Sua Storia (nonchè nel “Wall of Fame” del bar frequentato dal protagonista) una serie impensabile di personaggi a vario titolo famosi e/o di un certo rilievo: da Rubin “Hurricane” Carter a Lou Abbot (quello di Gianni e Pinotto), Allan Ginsberg, Gaetano Bresci, e ovviamente il poeta Willam Carlos Williams.

   Ottima prova d’attore sia per Adam Driver, che con la sua ammaliante voce da basso recita le poesie al ritmo di come queste nascono e crescono sulle pagine del suo taccuino, sia per Golshifteh Farahani, che dietro la sua aria trasognata e svampita nasconde le ambizioni e i talenti di una vera artista, nonché sicuramente la prova di Nellie (Marvin, Palma d’Oro a Cannes, ovviamente nella sezione apposita).

   Importante anche il contributo musicale degli Sqürl (la solita atmosfera rarefatta tanto cara a Jarmush) e naturalmente un grosso applauso al vero protagonista del film, Ron Padgett, autore dei bellissimi versi del taccuino segreto di Paterson.
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Love Poem 
We have plenty of matches in our house 
We keep them on hand always 
Currently our favourite brand 
Is Ohio Blue Tip 
Though we used to prefer Diamond Brand 
That was before we discovered 
Ohio Blue Tip matches 
They are excellently packaged 
Sturdy little boxes 
With dark and light blue and white labels 
With words lettered 
In the shape of a megaphone 
As if to say even louder to the world 
Here is the most beautiful match in the world 
It’s one-and-a-half-inch soft pine stem 
Capped by a grainy dark purple head 
So sober and furious and stubbornly ready 
To burst into flame 
Lighting, perhaps the cigarette of the woman you 
love 
For the first time 
And it was never really the same after that 
All this will give you 
That is what you gave me 
I become the cigarette and you the match, 
Or I the match and you the cigarette 
Blazing with kisses that smoulder towards 
heaven
Another One 
When you're a child you learn there are three 
dimensions 
Height, width and depth 
Like a shoebox 
Then later you hear there's a fourth dimension 
Time 
Hmm 
Then some say there can be 
five, six, seven... 
I knock off work 
Have a beer at the bar 
I look down at the glass and feel glad
The Run 
I go through 
trillions of molecules 
that move aside 
to make way for me 
while on both sides 
trillions more 
stay where they are. 
The windshield wiper blade 
starts to squeak. 
The rain has stopped. 
I stop. 
On the corner 
a boy 
in a yellow raincoat 
holding his mother's hand
 
Poesia d'amore 
Abbiamo molti fiammiferi in casa nostra 
Li teniamo a portata di mano, sempre 
Attualmente la nostra marca preferita
è Ohio Blue Tip 
Anche se una volta preferivamo la marca Diamond 
Questo era prima che scoprissimo 
I fiammiferi Ohio Blue Tip 
Sono confezionati benissimo 
Piccole scatole resistenti 
Con lettere blu scuro e blu chiaro bordate di bianco 
Con le parole scritte 
A forma di megafono 
Come per dire ancora più forte al mondo 
"Ecco il più bel fiammifero del mondo 
Il suo stelo di tre centimetri e mezzo in legno di pino 
Sormontato da una testa granulosa viola scuro 
Così sobrio e furioso e caparbiamente pronto 
A esplodere in fiamme 
Per accendere, magari, la sigaretta della donna che 
ami 
Per la prima volta 
E che dopo non sarà mai più davvero lo stesso 
Tutto questo noi vi daremo 
Questo è ciò che tu hai dato a me 
Io divento la sigaretta e tu il fiammifero, 
O io il fiammifero e tu la sigaretta, 
Risplendente di baci che si stemperano 
nel cielo
Un'altra 
Quando sei un bambino impari che ci sono tre 
dimensioni 
Altezza, larghezza e profondità 
Come una scatola da scarpe 
Più tardi capisci che c'è una quarta dimensione 
Il tempo 
Hmm 
Poi alcuni dicono che forse ce ne sono
cinque, sei, sette... 
Stacco dal lavoro 
Mi faccio una birra al bar 
Guardo il bicchiere e mi sento contento
La corsa 
Passo attraverso 
trilioni di molecole 
che si fanno da parte 
per lasciar passare me 
mentre su entrambi i lati 
altri trilioni 
restano dove sono. 
Le spazzole del tergicristallo 
cominciano a scricchiolare 
La pioggia si è fermata 
Io mi fermo 
All'angolo 
Un bambino 
Con un impermeabile giallo 
Stringe la mano di sua madre

venerdì 16 dicembre 2016

Der Mondmann - Stephan Schesch, Sarah Clara Weber (Fra 2012)

   Un approccio cristologico al film sarà senz’altro esagerato. Però, a cominciare dal: “Io non sono di questo mondo”, dalla sua insistita mitezza, dall’essere amato e cercato soprattutto dai bambini (e poche altre persone buone), dall’essere perseguitato dal Potere  senza motivo e sulla base esclusiva di menzogne, mi ha fatto per un attimo pensare che se  Cristo (quello vero) non si fosse fatto prendere dalla mania assurda di voler salvare il mondo a tutti i costi,  il candido e tondo protagonista di questo film potrebbe davvero assomigliargli.

Senz’ossa e organi interni (ma non per questo “puro spirito”), quasi analfabeta e perciò ricchissimo di ignoranza, “Straniero alla Terra” (come direbbe Richard Bach), annoiato del suo status incompleto e incorporeo confuso tra le rocce lunari  e che, prima di commettere il suo peccato originale (quello di volersi aggrappare alla coda di una cometa per visitare la Terra), non conosce ancora il vero perché del suo esistere, der Mondmann trapassa la crosta degli Uomini in maniera indolore, con la delicatezza innocente di un “Angelo Caduto dal Cielo” (come direbbe Nada), un angelo speciale e diverso perchè costantemente presente presso gli Uomini, merito questo che gli Uomini stessi (illuminati e non) non tarderanno a tributargli una volta incontrato di persona, e per questo perseguitandolo oppure aiutandolo con tutte le forze, a seconda dei casi. Der Mondmann è  una Verità che si autorivela senza bisogno della mediazione di nessun profeta (sovrastruttura notoriamente inutile di ogni religione), che, pur perfettamente in grado di compiere miracoli,  non pretende ma al contrario chiede, bisognosa, sostegno ed aiuto anzitutto per se stessa.

Se tutto questo non bastasse, e se non bastassero le tavole dei disegni di questo delizioso cartoon colorato ed animato con profonda modernità e con altrettanto profondo rispetto per una tradizione dei film di animazione alla quale attinge senza vergognarsi affatto, se non bastassero alcuni quadri divertentissimi dove alla Natura intera è dato prender parte alla vicenda (il duo dell’alce e del gufo con la torcia, il povero orso bianco che trattiene il fiato per compiacere “Herr President”), allora forse il poter riascoltare, dopo secoli che non risuonava più da nessuna parte, le note del riff di “In A Gadda Da Vida” inserite nella colonna sonora, potrà forse bastare per farvi innamorare di questo film. 
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lunedì 5 dicembre 2016

Free State of Jones - Gary Ross (USA 2016)

“Some people say a man is made outta' mud.
A poor man's made outta' muscle and blood.
Muscle and blood and skin and bones.
A mind that's a-weak and a back that's strong”


A voler essere provocatori, “Il Libero Stato di Jones” che Newton Knight, intorno agli anni di tardo 1800 tra la presidenza Lincoln e quella Johnson in cui Lamerica tentava di sdoganare i “niggers”, può essere considerato il prototipo del perfetto stato comunista, di per sé validissima spiegazione alla brevità del suo esistere. I punti che il Cavalier Newton enunciò nel discorso della proclamazione della sua indipendenza, davanti ad una folla di contadini, ex schiavi, disertori, nonchè relative mogli e progenie dei succitati,  furono infatti (riassunti): nessuno può restare povero se poi un altro diventa ricco, nessuno può dirci per cosa morire o per cosa no,  chi semina raccoglie e quel che raccoglie è solo suo, e noialtri siamo tutti uguali. Applausi.
   Non conoscevo questo breve capitolo di Storia che Il regista Gary Ross ha voluto proporci attraverso il cinema. Episodio marginale, fugace, drammatico come ogni rivoluzione è drammatica, intenso come una Favola e come ogni Favola con una morale puntualmente disattesa dalla Storia, che delle Favole è la peggior nemica.
Peccato però che Gary Ross, pur avendo indovinato non poche scene (una su tutte: l’improvvisa sparatoria multigenere e multietnica durante un finto funerale), non abbia saputo dare alla vicenda il clima, il tono, il colore che probabilmente quella bella Favola nera (e bianca) deve aver avuto nella realtà, almeno come me la figuro io.
   Attraverso lo sguardo perennemente allupato del protagonista, caratterizzato in modo spesso eccessivamente ridondante, pontificante, una sorta di  “one-man-band” buono per ogni cosa, da sindaco a prete, da generale a fabbro, da contadino a bravo marito, leader, soldato, infermiere, stratega, psicologo, fratello maggiore, ottimo cecchino, naturalmente anche un po’ fico, Ross sceglie un taglio patinato, un tono favolistico che non avrebbe dovuto avere (se voleva essere un film storico), che strizza troppo l’occhio a Robin Hood quando gli contrappone un Tenente Fetente nel ruolo dello Sceriffo di Sherwood  e gli affianca una Lady Marion di origine africana, o quando ripulisce un po’ ipocritamente gli stacchi scenici tra un taglio delle palle al negro o lo strozzamento dello stronzo sudista, e soprattutto in quella parte di film un po’ zoppicante e distonica, dedicata al flash forward in cui i discendenti di Knight, quasi cent’anni dopo,  in piena era di “Missisipi Burning” sono ancora alle prese con le questioni razziali.
    Anche la colonna sonora non si fa apprezzare troppo: personalmente, ad esempio, al posto della sdolcinatissima e melliflua “I’m Cryng” interpretata da Lucinda Williams sui titoli di coda, avrei preferito sentir risuonare la celeberrima “SexteenTons”, una sorta di spiritual moderno, creata e portata però al successo dai bianchi verso il 1950 (questa è una delle poche versioni che ho trovato in rete in cui è cantata da un nero, e male, visto che, invece di cantarla sporca di carbone come dovrebbe essere, la canta sì con tono di basso, ma come se fosse un chierichetto eunuco), un contorto omaggio al bravo Matthew McConaughey che, in questo film sicuramente privo di colpe sue, nel 2012 era stato il protagonista di “Mud” (cioè “Fango”), ciò di cui (dice la canzone) è fatto e costituito  “il pover’uomo, muscoli, pelle, sangue ed ossa, la schiena forte e la testa vuota”, conformemente a ciò che ancora nel terzo millennio, anche in era carbo-Trump, possiamo registrare in termini di schiavismo irrisolto.
    Film passabile, per lo meno sul piano degli ideali che riporta.
Grazie lo stesso, Mister Knight. 
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martedì 29 novembre 2016

Snowden - Oliver Stone (Usa 2016)


I tempi della distribuzione italiana hanno fatto sì che, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, uscissero “Lo and Behold” e “Snowden”. Se Werner Herzog non era riuscito a metterci in guardia dalle insidie connesse (è proprio il caso di dirlo) alla globalizzazione della tecnologia, non poteva fallire Oliver Stone (almeno in questo intento) dando voce a corpo alla storia recente di Edward Snowden, l’uomo che ha fatto arrossire per un attino tutta la classe dirigente degli USA con le sue improvvise rivelazioni sullo spionaggio segreto informatico multilivello. Classe dirigente che, peraltro, dal Presidente Obama in giù non fece una piega davanti a questa cannonata e, con poche fiorettate di diplomazia, spedì il signor “No One” Snowden fino al confino volontario in Russia, dove risiede tutt’ora, probabilmente nemmeno più ricercato.

E non so se il monito principale di questa storia sia quello di riflettere su ciò che siamo diventati oggi tutti noi, entusiasti o anche solo forzatamente assuefatti della/alla nostra costante interconnessione full time, di renderci consapevoli che questa nuova modernità dalla quale non sapremo mai più tornare indietro non è solo una bella comodità, ma è anche la migliore trappola per topi che “Il Potere” abbia mai innescato nella storia dell’umanità, o non sia piuttosto quello di renderci consapevoli, se anche le rivelazioni di Snowden non sono riuscite a cambiare nulla,  che la partita è irrimediabilmente persa, e che forse (magra consolazione) possiamo anche smettere di lamentarci delle innocenti “Ads” con cui ci tormentano i vari gùgol ogni minuto, e cominciare ad essere consci del fatto che ogni minimo dettaglio, ogni nostra stupida foto delle vacanze, ogni tag, ogni like, ogni nostro click sulla tastiera è tracciato, conosciuto, eventualmente usato, dovesse servire,  anche contro di noi.
Per quel poco che so e ricordo di Oliver Stone, massiccio combattente di stampo comunista, probabilmente le intenzioni del film non erano queste: la rotta che il regista da alla vicenda non pare voglia virare verso la rassegnazione e, fino alla fine, la figura di Edward Snowden, che pure non viene affatto disegnata (molto opportunamente, direi) coi tratti dell’eroe, rimane quella di una persona disincantatamente idealista, che dubita pur senza esitare, e che comunque agisce e si adopera per una “giustizia” alla quale non si sa voglia davvero credere, ma alla quale tende quasi soltanto per un principio ineludibile di chissà quale Legge della Fisica: insieme pregio e difetto della sceneggiatura, è quello di non saper spiegare fino in fondo allo spettatore il “perché” Snowden abbia deciso ad un bel momento di vuotare il sacco, e men che meno (ma questo non può certo essere addebitato alla sceneggiatura realizzata da Stone) che cosa si aspettasse da questo suo agire.
Un po’ Harry Potter rubato alle favole (il bravo Joseph Gordon-Levitt gli somiglia), un po’ Braveheart, un po’, se vogliamo, anche uno di quei non-eroi da cui Werner Herzog avrebbe saputo trarre uno dei suoi magnifici documentari biografici se solo il personaggio non fosse stato così tanto esposto alle cronache mondiali, Snowden (persona)  ne esce in modo semplice, come fosse un qualunque bravo ragazzo, mentre “Snowden” (film) si lascia tutto sommato apprezzare grazie ad un mestiere che a Oliver Stone certo non manca (ho notato alcune fulminanti zummate brevissime che tendono a porre l’accento non so bene dove, ma che forse danno la cifra della beatitudine incantata e un po’ drogata in cui versano, ormai, galleggiando come una ninfea appassita, i vecchi comunisti come lui), e ad una scrittura filmica molto classica, saggiamente poco pretenziosa, come fosse semplicemente uno dei tanti articoli di giornale che riportarono dettagliatamente  dell’Affaire Snowden e coi quali, da Obama in giù (o in su), tutti i Potenti ci si sono puliti il culo (scusate, m’è  uscita...).  
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