Il Paese delle Meraviglie (“Eventyrland”, in norvegese) non è
più una fiaba. Al contrario: la fatica e la sofferenza con cui le mani di un fata l’hanno ideata, costruita,
pitturata e deliziosamente arredata, fanno della cameretta della piccola Merete
il luogo più concreto e tangibile del
mondo, il Meraviglioso Paese cui Jenny
(la protagonista del film, una Silje Salomonsen ostinata e convincente,
dolcemente fragile nella forza che il destino le impone di tirar fuori) ha
dovuto rinunciare il giorno in cui la fiaba incantata del suo Grande Amore si è
spezzata, e che cerca disperatamente di ricreare, lasciandola in dote per la
sua bambina.
L’incipit del film è in un bosco silenzioso. Jenny e Gary,
grosse tronchesi pesanti appoggiate sulla spalla di lui, tentano di dissimulare
il nervosismo con cui stanno aspettando qualcuno, sperando che costui arrivi
prima che faccia buio. Per Jenny è
l’occasione giusta per informare il suo ragazzo del fatto di essere incinta.
Gary ne è felice, spunta una piccola fede rubata a chissà chi che presto si
infilerà (quasi) per sempre nel dito di lei, in segno di rinnovato e rinforzato
amore, prima che i due procedano insieme all’operazione per cui si trovavano
lì, da soli, senza che la terza persona si sia fatta viva. Forzandone le catene
che la chiudono, i due giovani, introducendosi in una grande serra, oltre ad un
grosso fucile trovano ciò che stavano cercando, ma al posto di “innocente” erba
da fumare, lo zainetto che aprono è pieno di droga pesante. Roba grossa, più
grande di loro. Jenny esita, propone di mollare tutto, Gary invece pensa che
presto avranno un bambino (già discutono sul nome da dargli), che hanno bisogno
di danaro, la faccenda puzza anche a lui, ma forse conviene rischiare, son
soldi. Nella serra irrompe qualcuno, qualcuno che non è la persona che stavano
aspettando. Spari...
La fulminante scena-ponte color pastello di tenerezze
scambiate tra una madre e la sua bimba appena nata che porta dall’incipit al
corpo del film, musicata solo col rumore di
un battito cardiaco, postata di pochi secondi tra il sangue di un attimo
prima e le sbarre di una cella di un attimo dopo, è il primo sigillo di qualità
di questo bellissimo film norvegese firmato da Arild Østin Ommundsen, che è
inaspettatamente un uomo. Dico così perché ritengo sia raro per un regista
maschio concepire e realizzare un film così marcatamente al femminile: non solo
Jenny ne è la protagonista, ma sua figlia, la piccola Merete che compare assai
poco nel film ne è la corrispondente “materia oscura”, ciò che la vivifica e le
da energia, movimento, sussistenza. E il tutto è immerso in un mare maschile
fatto di “lui” : Gary, il fidanzato/padre (mirabile come, dopo oltre 20 minuti
di morte apparente, il regista sappia
resuscitarlo agli eventi); il tipo che li ha fregati (a cosa servono gli amici,
se non a rifilarti un tubo Pirelli dritto sulla nuca nei momenti critici?); la
banda dei delinquenti che la ricatta e se ne fa scudo e gioco, fino all’idraulico,
povero cristo che non c’entra niente con la storia, se non per essere uno dei
mille che cerca di trarre profitto dalla povera Jenny e dai suoi stati di
necessità.
Così come fa la colonna sonora (bizzarro uso, come nella
scena dello zoo-safari in cui una musichetta domenical-festiva si protrae nei
fotogrammi successivi, drammatici e tesi, con una continuità anomala e
suggestiva), così Jenny attraversa la sua ostinata Odissea di eroina reietta e
innocente fino ad un conclusione solo apparentemente paradossale, un “Happy-Ending”
non conclamato, sicuramente da interpretare senza che sia necessario prenderlo
alla lettera (si dovrebbe dire: al fotogramma), incentrato non a caso più sulla
danza liberatoria e vincente della piccola Merete che non sui gesti improbabili
del suo sventurato padre.
Molto bello.
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