“E' difficile, per una donna, definire i suoi sentimenti in
una lingua creata dagli uomini per esprimere i loro”.
“Far From The Madding Crowd”, nonostante quanto sopra da
esso stesso enunciato, nasce per mano di un uomo (Thomas Hardy), nel filone
della monumentale/melodrammatica letteratura britannica ottocentesca che non ho
mai avuto la fortuna di frequentare, ammesso che sfortuna sia. Ho invece avuto
la fortuna di incontrare il suo corrispettivo cinematografico (versione 2015),
confezionato dalle mani di uno dei miei registi preferiti (Thomas Vinterberg,
uomo), il quale ha ritenuto meravigliosamente opportuno affidarne gesta e speranze alla mia attrice ancor più preferita
(Carey Mulligan, donna), mai vista, sino ad ora, meno all’altezza della volta
prima.
Anno 1870 - Bathsheba Everdene (lo racconta essa stessa
nell’incipit) è un nome strano, che non le è mai piaciuto. Orfana e sola,
cresce auto fortificandosi, indipendente, apparentemente libera ma in realtà circondata
da una nuvola di ghiaccio della quale ignora ogni cosa, nelle rigogliose campagne
britanniche dove incontra subito, senza essere in grado di riconoscerlo, il
grande amore; il quale amore (impersonificato da Matthias Schoenaerts/ Gabriel
Oak), un giovane dotato e risoluto, almeno sul lavoro, la chiede subito in
sposa (precipitosamente, direbbe qualcuno di mia conoscenza...).
“Non mi dispiacerebbe essere una sposa, se solo ciò non comportasse il dover
prendere marito”: questa è la sciocca risposta (ma mica tanto...) che da’
Bathsheba a Gabriel. Non è un sì, non è un no (ma è comunque ascrivibile come
rifiuto, o quanto meno non accettazione), ed è soprattutto quella costante rivendicazione
di autonomia di “bastante a se stessa” che tratteggerà il carattere della
ragazza, e al tempo stesso la cortina di gelo dietro cui si nasconderà con
fierezza la dolce e fragile Bathsheba per gran parte della vicenda.
Ben presto, due eventi fatali travolgeranno i due giovani spingendoli in
direzioni opposte e contrarie (il cane pastore di Gabriel, in un raptus di
follia notturno, spingerà tutto il suo gregge di pecore a gettarsi in un
burrone provocando la rovina economica del suo padrone, mentre Bathsheba
erediterà tutta una grande e prestigiosa fattoria dallo zio defunto) unendoli
in un destino che vorrà lei nel ruolo di “Signora” e lui in quello di umile e
fedele salariato. In realtà, l’amore mai sopito che alberga nascosto nel cuore
di Gabriel (e -lei ancora non lo
sa- anche in quello di Bathsheba),
faranno di lui una sorta di Angelo Custode sempre presente e vigile nella vita
dell’ormai ricca e stimata possidente, a cominciare da quei difficili esordi
nel mondo del commercio su larga scala (magnifica la scena della prima volta in
cui Bathsheba si reca con la sua assistente al mercato delle granaglie, unica
donna -mai vista una, prima d’ora, in tale contesto!- perfettamente snobbata da
tutti gli uomini presenti), fino a tutti i tormenti e i dubbi amorosi che
attraverseranno lo spirito della ragazza, certamente oggetto del desiderio non
soltanto del suo fido “pastore”.
Dopo aver declinato anche la lusinghiera e teoricamente irrifiutabile offerta
di matrimonio di William Boldwood (Michael Sheen), un ricchissimo proprietario
terriero di mezza età rimasto volutamente scapolo dopo una cocente delusione
d’amore di gioventù, Bathsheba incontrerà però la spada che farà breccia nelle
sue eterne resistenze: sarà il sergente Francis Troy (Tom Sturridge) colui che
per primo troverà la chiave per raggiungere il suo cuore, una chiave
elementare, un vero “Uovo di Colombo”: tutti (tanti) l’avevano sempre e
semplicemente chiesta in sposa, ma mai nessuno, prima dell’ardito sergente, le
aveva detto semplicemente detto così, direttamente, senza mezze parole, quanto
fosse bella. Scatta così in Bathsheba quel meccanismo primordiale e magico che
la porterà alla sciagurata scelta di un (finalmente) marito che tutto potrà
fare (dall’iniziare a dilapidarne il patrimonio al gioco, fino al riavvicinarsi
ad una sua vecchia fiamma mai scordata, e rincontrata per caso ad un mercato)
tranne che renderla felice.
La vicenda (e con essa il film, sulla cui descrizione non mi dilungo oltre,
anche per non pervenire ad antipatici spoiler),
ricchissima di punti cardine, di crocevia
dirimenti, di coincidenze fatali, di incontri e scontri tra i vari personaggi
(di pregio e particolare raffinatezza il rapporto di reciproco rispetto e
stima, unita ad un’inevitabile rivalità che coinvolge Gabriel ed il ricco
Boldwood, entrambe onestamente innamorati di lei) è una di quelle alle quali,
magari anche dimenticandosi per un attimo tutte le considerazioni
tecnico-artistiche sulle quali ogni buon dilettante cinefilo come me ama
indugiare davanti ad un bel film, è soprattutto bello ed importante abbandonarsi,
farsi raccontare, vedere ed ascoltare come un bambino ascolta una favola (si
può forse dire che “Far From The Madding Crowd” non sia una favola?!), tanto
più che l’estrema dolcezza che emanano e la tenerezza che suscitano entrambe i protagonisti con le
loro infinite schermaglie accompagna per mano ogni spettatore, su di un tappeto
di struggenti violini stesi al sole insieme alle verdi campagne inglesi, verso
il vero, unico finale che ogni bambino vorrebbe avere dalle sue favole
preferite.
Felice incursione di Vinterberg (già ruvido regista danese della galassia
“Dogma”) in un genere per lui nuovo. Da vedere rigorosamente in versione
originale casomai sottotitolata, non fosse altro per la musica dall’accento
londinese che esce ad ogni parola pronunciata dalle splendide labbra di Carey
Mulligan (su questo non sono obbiettivo, lo so. E non me ne scuso neppure...).
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