L’equidistanza non necessariamente corrisponde all’equilibrio,
e il “mezzo” in cui, con encomiabile sforzo, cerca di porsi Fasulo per voler
non essere né troppo universale, né troppo personale, finisce per assomigliare più
che altro ad un “tiepido” scarsamente emotivo. Poco commuove e coinvolge, e nemmeno troppa
solidarietà umana suscita un collettivo di genitori e parenti di disabili con i
quali il regista/autore sceglie di interloquire attraverso un distacco asettico
che finisce per non spiegare il dramma, per non svelare il dolore,
posizionandosi con insana e diseducativa prudenza dietro un “politically/healthly
correct” che, non volendo rigirare il coltello nella piaga, finisce per non dire
e illustrare quasi nulla della piaga stessa. Emblematico il dibattito iniziale
sulla sessualità dei disabili (dire “disabili” è poco, l’universo immagino sia
vastissimo e variegato), quasi chiacchiere da circolo di burraco, un accenno
alle responsabilità della cultura cattolica presto driblato con poco
encomiabile prontezza.
Fatta eccezione forse solo per un paio dei partecipanti
al collettivo, Fasulo non riesce a spremere pathos, ma questo forse non è un
male: forse non lo voleva. Però non riesce neppure, né in spettatori al di
fuori dell’ambito in cui si muove il tema del film (come me), né in qualche caso rivolgendosi direttamente agli
operatori del settore, ad entrare nel sangue: la camera costantemente posizionata a pochi centimetri dai nasi “sfiora”
e basta, ma non tocca, bussa senza entrare, non ha il coraggio (non vuole
averlo?) di farsi avanti, di denudare, di lanciare l’urlo… Sussurra a mezza
voce, come nel finale “politico” del gruppetto dei protagonisti alle prese col
sindaco, dove l’ipocrisia delle istituzioni che stringono mani dopo le loro
promesse palesemente vane, inscenata anch’essa in maniera “politically correct”,
finisce per abbagliare anche i migliori critici, che credono di vedere in
questo manipolo di fortissimi deboli, di ultimi in prima fila, un “gruppo di
potere” inesistente, senza trovare il coraggio di guardare negli occhi e
riconoscere in costoro un cenacolo di santi beatamente soli, alle prese con il loro
destino.
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