“Maryland” è un
luogo. E’ il nome di una lussuosa villa francese dove il signor Whalid, ricco
libanese di non meglio (non subito) precisata professione, vive con sua moglie,
il figlioletto e qualche domestico. Il
titolo del film è già azzeccato di suo: fissare l’accento su di un luogo
piuttosto che su persone o accadimenti, è ben fatto per un film dove poco o
nulla accade, dove la maggior parte delle cose è inserita per sottrazione, e
dove persino il cane di casa fa di nome “Ghost”.
Vincent è un reduce d’Afghanistan, dunque
è classico il suo patire di PSTD (Disturbo Post Traumatico da Stress). Per lui,
in alternativa ad un improbabile nuovo reclutamento nelle zone di guerra, si
prospetta un lavoretto per niente mal retribuito allorquando, dovendosi il ricco
libanese assentare “per affari” a Ginevra
per un paio di giorni, gli viene proposto di fare da bodyguard alla bionda
signora rimasta sola in quel di Maryland.
Jessie è la bionda signora di cui
sopra. Candida pelle sovresposta pressoché dall’inizio alla fine (mozzafiato il
suo abito d’esordio alla festa cocainizzata dell’entuorage di suo marito e dei
suoi – non loro – amici faccendieri alla villa), la sua passività apparente
sarà in realtà la “seconda fase” di quel motore a scoppio che correrà veloce e
senza fretta, insieme al pistone Vincent, per tutta la durata del film.
Alice Winocour, classe 1976, Parigina,
già in nomination per l’Oscar per il film “Mustang” e che, oltre a quello,
vanta una bella sfilza di riconoscimenti
e premi quanto basta per essere alquanto snobbata dalla distr(ib)uzione
italiana (sic!), sapientemente utilizza la prima mezz’ora di questo film come
introduzione didascalica alla non-vicenda; dopo di che, “Maryland” è
praticamente un “passo a due” tra gli ottimi Matthias Schoenaerts e Diane
Kruger (da notare: nessuno dei due di madrelingua francese, e pertanto ancor
più meritevoli di elogi), del quale molto sottilmente, in un’atmosfera tesa e a
tinte fosche solo in apparenza noiosa, la regista, con magistrale, finta
lentezza, e con un dosaggio perfetto dell’evoluzione dei non-eventi, saprà
rendere il senso ultimo delle cose grazie
ad un ottimo finale che, se non nei fatti, resta comunque aperto
nelle intenzioni, esplicativo e rivelatorio
insieme, conferendo ai due protagonisti la tridimensionalità di un tutto tondo
disperato e bisognoso al di là di quanto le loro stesse coscienze abbiano potuto
riconoscere in loro stessi.
Riuscitissima la scelta dei due attori protagonisti: gli sguardi perennemente
bassi di un ultra-buono (anche quando gli tocca la parte del duro) come Schoenaerts,
e la gelida ultra-bellezza della Kruger (sempre altrettanto gelida sia nei
ruoli di vittima innocente, sia in quelli di subdolo carnefice) si fondono perfettamente e in maniera quasi sorprendente
grazie all’impasto creato da una regia molto attenta ai particolari, ai
dettagli, come detto all’inizio: alle sottrazioni (fulminea, sbrigativa e
cruciale la morte della madre di Vincent ad inizio film), abilissima nel procedere rettilineo e costante
verso un obiettivo sempre latente eppur sempre presente.
“Maryland” è un film non da una
visione sola, se non altro per poter rivedere con la dovuta calma la scena del
pre-finale, l’ultima aggressione in villa dei “fantasmi incappucciati”, nemici
solo per contratto e pertanto senza nessun nerbo, dove la brutalità inaudita
usata da Vincent/ Schoenaerts è come l’estuario in cui il fiume di pena dei due
protagonisti tenterà di dissolversi.
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