“Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai”
(Matteo 18, 1-5)
“La fede è fatta di 24 ore di dubbio per ogni minuto di
speranza”.
(Suor Maria)
L’approccio perfettamente laico alla questione “fede” è
senz’altro il punto di forza di questo bellissimo “Les Innocentes” (perché in
Italia “Agnus Dei”??... Mistero Doloroso!): le sconvolgenti incursioni degli
eserciti prima tedesco, poi russo all’interno dello sperduto convento nella
fredda Polonia del dicembre 1945, lasciano alle consorelle che lo abitano,
oltre che sei o sette gravidanze per nulla attese, ben seri motivi per
interrogarsi e di conseguenza interrogare lo spettatore sul significato della
fede in Dio.
Il manipolo di consorelle pensato dagli sceneggiatori (del quale fa parte la
stessa regista Anne Fontaine) è di per sé una corale testimonianza laica: nel piccolo microcosmo
solo in apparenza separato dal mondo, ogni suora vive la sua esperienza in
maniera differente: una teme l’inferno, una sorride divertita quando la
dottoressa la visita toccandole il pancione, una si contorce disperata nel
timore di contravvenire alla Regola, un’altra tace fino all’ultimo e partorisce
sola, senza che nessuno nemmeno si sia mai accorto del suo stato, un’altra
scopre di avere altrove (forse nel fumo di una sigaretta) la sua vera
vocazione... E alla testa di tutte loro
la figura della badessa
(curioso, una sorta di contrappasso: Agata Kulesza,
l’attrice che le dà corpo, tre anni fa
fu il contraltare, anche allora perdente, della novizia “Ida”, in un film
altrettanto polacco e meraviglioso di Pawel Pawlikowski– non c’è da
meravigliarsi, data l’ultra cattolicità della nazione, che ne escano tanti film
di suore...-), l’unica la cui ostinazione per una fede vissuta come indiscutibile
e monolitica la renderà incapace di trarre “il bene dal male”.
Ma la figura che campeggia sopra ogni altra, a mio avviso, è quella di suor
Maria, la vice badessa (una superba Agata Buzek), la cui fedeltà ai voti presi
e agli obblighi da questi derivanti non
sono mai messi in discussione, ma sono casomai, alla luce degli eventi, stimolo
di continua riflessione e di perpetuo interrogarsi; la bella amicizia che finirà per legarla a
Mathilde
(splendida e commovente la scena in cui Maria aiuta la dottoressa ad
indossare un grazioso abitino rosso e nero, quello che lei stessa portava il giorno
che entrò in convento, simbolo e retaggio di una razionalità e di una
intelligenza che nessuna fede, per quanto grande e potente, ha potuto
cancellare in lei) è di nuovo testimonianza di come il credere non sia mai un
porto sicuro, un punto di arrivo, ma sia
un mare in continuo movimento dove, appunto, le giornate di chi crede in Dio “sono
fatte di ventiquattr’ore di dubbio e di un minuto di speranza” (sua la battuta,
all’interno del film).
Del resto, anche sul versante non confessionale del cast, l’estrazione
comunista di Mathilde (la dottoressa protagonista interpretata da una brava, ma
a mio avviso non eccelsa Lou de Laâge), che fa il paio con la tormentata storia
del dottor Samuel (Vincent Macaigne), un passato di ebreo intrappolato dentro
gli orrori del ghetto di Varsavia e convinto che gli unici polacchi degni di
rispetto siano ormai tutti morti dentro quegli orrori, la laicità è insita nel
DNA originale, oppure vi è stata inoculata con la forza e la violenza della
vita.
Lo scambio benefico e nutriente tra fede e razionalità è insomma la vera misura
di questo film, dove una giovane
dottoressa comunista francese si convince ad aiutare le suore straniere
solo dopo aver intravisto tra i vetri la
preghiera di una giovane novizia inginocchiata sulla neve, dove la quota maschile, sia attraverso
il suo portavoce principale (il già citato dottor Samuel, buono ma cinico,
tenero ma prepotente, opportunista ma generoso),
sia dalla schiera di
“fantasmi” uomini (è ripresa “fuori fuoco” la
soldataglia russa che irrompe sulla scena a metà film)è doverosamente
minima e si traduce in un solo, semplice concetto, in contrasto sia con la fede,
sia con la ragione: ambiguità.
Anne Fontaine, anche avvalendosi di una splendida fotografia che definirei pacatamente
poco sopra il bianco e nero (bianco è nero è l’abito delle suore...), tra
silenzi ultraterreni e grida, spesso con
piccoli movimenti di camera appena percettibili quasi fossero opera intangibile
dello Spirito Santo, con alcuni quadri magistrali di fuochi alternati (i
migliori quelli riservati al duo Mathilde/Maria), in un film la cui unica
pecca, a mio avviso, è quella di non aver saputo osare un po’ di più in termini
temporali
(se alcune scene fossero state mantenute più a lungo, qualcuna delle
tante emozioni che il film riserva fosse rimasta in scena un po’ di più, avremmo
avuto un film forse meno “commerciabile”, ma di certo coraggiosamente pronto a
spingersi verso e magari oltre le tre ore di durata, che credo non sarebbero
state per nulla pesanti) fino ad una soluzione finale indovinatissima e felice,
laddove (senza spoilerare alcunché),
potendo ragionevolmente asserire che i
veri protagonisti siano in fondo i nuovi nati, la “morale” del film può forse essere
efficacemente sintetizzata dalla frase del Vangelo: “Se non ritornerete come
bambini, non entrerete mai”.
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