Ginger & Rosa (Sally Potter)
“Ginger & Rosa” nascono insieme sotto un fungo: nell’istante in cui a Londra le loro
rispettive madri si stringono forte la mano, sdraiate una accanto all’altra
ciascuna nel proprio doloroso letto di travaglio, dall’altra parte del mondo,
ad Hiroshima, ecco esplodere la prima bomba atomica. Le due bimbe crescono
insieme, amiche per la pelle, nel freddo di quella fredda guerra che qualche
bene informato dice non essere mai esplosa, mentre qualcun altro, forse
informato meglio, garantisce essere tutt’ora crepitante in mille, più o meno
grandi rivoli e focolai lontani, e che io, nel mio piccolo, credo invece scoppierà
tutto d’un botto anche tre le nostre belle e pacificate pance quando, fin
dentro i nostri disperati materassi/salvadanai, la bomba d’aria dentro cui galleggia l’artificiale sistema economico/finanziario
fatto di carta e che ci ha resi fin ora freddamente grassi, farà finalmente
“BOOM!”, seppellendoci tutti sotto la venefica coltre di cenere dei nostri
poveri (a quel punto: anche maleodoranti), polverizzati IBAN.
Accantonati i debiti scongiuri, e per tornare al nostro film, “Ginger &
Rosa” è un bel ritratto sulle conseguenze della paura: avvalendosi delle belle
e giovani figure delle due giovanissime protagoniste (non me ne voglia la brava
Rosa/Alice Englert, ma, ancor prima di me, la stessa regista ha voluto affidare
a Ginger/Elle Fannning il timone della narrazione, fiutandone - a mio avviso
con merito – l’indiscutibile, grazioso talento già due anni fa, quando aveva
solo 14 anni), Sally Potter sa indicarci come diventi scivoloso il crinale
della vita allorché ci si aggrappa eccessivamente alle certezze inverificabili
(per dirla alla Ghezzi), alle aspirazioni insondabili, dalle manifestazioni di
piazza che, da che so io, non hanno mai cambiato nulla di tutto ciò che non si
sia cambiato da solo fregandosene altamente delle manifestazioni medesime (come
non intenerirsi, ed arrabbiarsi insieme, dell’idealismo anoarcoide e libertino
di Roland/Alessandro Nivola, il padre di Ginger, e del suo reclamar diritti sociali e privati
che nessuno gli potrà mai spiegare perché, in realtà, non gli spettino
affatto), ai talenti personali (quello di Ginger, poetessa, e di sua madre,
pittrice e dilettante musicista, artiste
nell’animo, perdenti nella Storia), che perdono “grip” deteriorandosi, non
riuscendo a svincolarsi dalle paure che li generano (la “perdita” di un
padre/marito, di una famiglia, dell’amica del cuore), fino alle ribellioni
(in)cruente, pubbliche e private, di cui sono ottimi testimoni i tre personaggi
di contorno: Bella/Annette Bening (quale
onore!), attiva nel movimento pacifista, Mark e Mark2/ encomiabili Timothy
Spall e Oliver Platt, questi ultimi nei panni forse non casuali di angelicati
omosessuali dediti con fervore alla custodia dell’anima di Ginger.
Un bel film, una bella regia sensibile e attenta, una (ri)costruzione esatta
(dentro e fuori) che sa viaggiare affiancata, senza sentirsene necessariamente
partecipe, agli eventi storici tutto sommato trascurabili, una fotografia ed
una luce (interiore ed esteriore) che, su me personalmente, hanno avuto il buon
effetto (complici: “tutti i frutti” che
suona il juke box della mia personale memoria) di invitare ad una sana, postuma
e sempre attuale riflessione.
Bella ed emblematica la scena finale: padre e figlia di spalle, poche parole e di
poca intesa, lo sguardo basso... verso il futuro.
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