Dora mi aspetta, mi aspetta tanto, mezz’ore intere. Io di
solito non lo so, ma intanto che sono lì in bagno, assiso sul mio metabolismo
lento e problematico a cazzeggiare col
nulla luminescente che fuoriesce dal portatile, o che mi perdo tre le bucce
delle sementine innaffiate di sangiovese per strascicare l’ultima parte della
giornata, o che mi attardo pigramente sul letto rigirando la mia riluttanza a
rimettermi in movimento per non so dove andare, lei è quasi sempre lì, da
qualche parte, normalmente sul bordo di qualche mobiletto, o dietro la porta sul tavolino degli scacchi,
oppure sul comò vicino al portaritratti con la foto di Felix, invisibile,
mimetizzata con l’aria.
Ormai ogni superficie lignea della mia casa che sia
appena un po’ rialzata da terra, reca da qualche parte un’aiuola delle sue
impronte visibili solo in controluce, raccolte, insistite, impresse a caldo nell’attesa
che io mi ricordi di lei, della sua presenza, palesemente prive di qualunque
traccia di qualcosa che assomigli solo vagamente alla fretta...
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