Sono girato sul fianco sbagliato, quello sul quale non dormo
bene. Infatti mi si aprono gli occhi e già la mente comincia a scalpitare per
volersi mettere in moto. Tutto buio, anche fuori. E’ il fianco sbagliato anche
perché, da così, ho la radiosveglia alle
spalle e non vedo che ore sono. Ma lo sento lo stesso, che ore sono, sotto le
palpebre: sono le cinque e un quarto, forse le quattro e un quarto, o le tre,
un quarto di un’ora qualunque di un’altra notte, scura e di vento, fredda e senza riposo. Mi giro: invece sono
le qualcosa e quaranta, ne manca uno, di quarto, a quell’ora qualunque di
notte. Ma non mi cambia nulla: sarò stanco anche questa mattina, mi alzerò di
nuovo già senza forze come al solito.
Conosco solo un modo per vincere la stanchezza, anzi due, ma uno soprattutto:
mangiare. E bere, bere tanto, bere. Se c’è qualcosa che riesce a trascinare il
mio corpo attraverso il corridoio di tanta spossatezza e a farmi muovere i
passi fino all’istante in cui potrò di nuovo buttarmi a letto o in poltrona,
questa è la prospettiva di raggiungere l’ora in cui mangiare e bere fino allo
sfinimento, per essere poi così stanco da non riuscire a dormire.
L’altra cosa è una doccia calda. Calda e infinita, catatonica, assente, subìta, un loop d’acqua scrosciante e vapore, davanti e dietro, dietro e davanti, sui fianchi, e la testa e le gambe, e via dalla pancia, via tutto, le mani che strisciano, raschiano, e buttano via, via, giù per lo scarico, tutto, occhi chiusi.
Ce n’è anche una terza: scrivere. Ma scrivere, quello non ci riesco.
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