Carol (Julianne Moore) è una giovane sposina timida,
premurosa ed infelice della ricca borghesia della Los Angeles di fine anni ’80.
Vive con suo marito Greg (Xander Berkeley), un uomo d’affari e Rory, il figlio di prime nozze di Greg, un
bambino di 10 anni col quale intrattiene un rapporto di fredda amorevolezza
piuttosto distaccata e più che altro funzionale al quieto vivere con il suo
uomo. Greg, per parte sua, è un brav’uomo e un bravo marito, ma già dalle prime
scene, dal lungo amplesso tra i due al quale lui è l’unico a partecipare
veramente mentre lei ne attende, con la pazienza della brava mogliettina, solo
la fine, appare chiaro che il loro sia un rapporto più di facciata che di
sostanza, o meglio, dove la sostanza è finta, ed è più che altro utile ad
imbiancare la facciata.
In questa situazione, riempendo i vuoti della sua vita con ginnastiche
giovanilistiche, frivole diete a base di sola frutta, ora in compagnia delle
sue amiche di pari rango e qualità intellettuale, ora intenta a costruire un senso
per se stessa dedicandosi al giardinaggio o
al nuovo design per la sua bella casa, Carol incomincia misteriosamente
ad avvisare strani sintomi legati alla respirazione: tossi non addomesticabili,
attacchi d’asma, a volte vomito e perdita improvvisa della memoria. Alle prime
analisi, il medico di famiglia non ravvisa nulla che vada oltre un normale
stress, e tenta di risolvere il caso ricorrendo solo a blande pomate per gli
sfoghi cutanei e ad una dieta che reintroduca carne e proteine. Ma col protrarsi
e l’intensificarsi dei sintomi, sempre più marcati e indecifrabili, Carol,
accompagnata sempre dall’onesto Greg, si rivolge ad alcuni specialisti, un
immunologo prima, poi uno psichiatra, imbattendosi infine in un volantino
appeso nella bacheca del centro benessere che frequenta e che le spalancherà la
porta verso la ricerca di una soluzione “olistica” a quel disagio per il quale
la medicina ufficiale, con sua stessa ammissione, sembra non essere all’altezza
di proporre un rimedio.
Man mano sempre più coinvolta nella scoperta di quelli che sono “le nuove
malattie legate all’ambiente”, della presunta,
sostanziale velenosità che ci assedia e ci insidia lì dove viviamo (gas
di scarico, fumi industriali, spray, vernici, alimenti, persino il nuovo,
fantastico divano color tè “assolutamente tossico”), autonomamente o in forza
con un gruppo di persone affette dai medesimi disturbi al quale approda
seguendo le tracce del volantino, Carol si convince sempre di più che la
risposta sia da cercare altrove, fuori dai canoni normali. Si imbatterà così
nel Wrenwood Center, una specie di comune dal regime piuttosto spartano a metà
tra una clinica salutistica ed un centro religioso che sorge in pieno deserto
nel New Mexico, fondata da tal Peter Dunning (Peter Friedman) uno scrittore a
sua volta malato di AIDS, atteggiato a una sorta di guida spirituale tutto
peace-&-love, introiezioni
taumaturgiche e ricerca del vero se stesso. Ma, come diceva giustamente Corrado
Guzzanti nel suo felice personaggio del seguace di Qhuelo, sintetizzando il
concetto in quella che non è mai stata soltanto una battuta spiritosa: “La
risposta è dentro di te, e però è sbagliata”.
Dal canto suo, peraltro, nemmeno Todd Haynes (regista che
ama stare fuori dagli schemi dello show-biz, per quanto gli sia possibile,
firma affermata del cosiddetto cinema indipendente del quale non va dimenticata
la meritoria e spesso fortunata attività di produttore e promotore di molti
registi in cerca di spazio e visibilità, come nel caso dell’ottima Kelly
Reichardt della quale ha prodotto praticamente tutti i film), nemmeno Haynes,
dicevo, si azzarda a dare una risposta che voglia essere troppo precisa, e
persino nel fissare i contorni della vicenda e dei personaggi evita con buon stile
di definire con troppa nettezza quali siano i confini, spingendosi oltre ai
quali si correrebbe il rischio (che Haynes dribla con maestria) di giocare un
ruolo manicheo da benpensanti dediti allo smantellamento delle versioni altrui.
(continua a leggere...)
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