In questa situazione, riempendo i vuoti della sua vita con ginnastiche giovanilistiche, frivole diete a base di sola frutta, ora in compagnia delle sue amiche di pari rango e qualità intellettuale, ora intenta a costruire un senso per se stessa dedicandosi al giardinaggio o al nuovo design per la sua bella casa, Carol incomincia misteriosamente ad avvisare strani sintomi legati alla respirazione: tossi non addomesticabili, attacchi d’asma, a volte vomito e perdita improvvisa della memoria. Alle prime analisi, il medico di famiglia non ravvisa nulla che vada oltre un normale stress, e tenta di risolvere il caso ricorrendo solo a blande pomate per gli sfoghi cutanei e ad una dieta che reintroduca carne e proteine. Ma col protrarsi e l’intensificarsi dei sintomi, sempre più marcati e indecifrabili, Carol, accompagnata sempre dall’onesto Greg, si rivolge ad alcuni specialisti, un immunologo prima, poi uno psichiatra, imbattendosi infine in un volantino appeso nella bacheca del centro benessere che frequenta e che le spalancherà la porta verso la ricerca di una soluzione “olistica” a quel disagio per il quale la medicina ufficiale, con sua stessa ammissione, sembra non essere all’altezza di proporre un rimedio.
Man mano sempre più coinvolta nella scoperta di quelli che sono “le nuove
malattie legate all’ambiente”, della presunta,
sostanziale velenosità che ci assedia e ci insidia lì dove viviamo (gas
di scarico, fumi industriali, spray, vernici, alimenti, persino il nuovo,
fantastico divano color tè “assolutamente tossico”), autonomamente o in forza
con un gruppo di persone affette dai medesimi disturbi al quale approda
seguendo le tracce del volantino, Carol si convince sempre di più che la
risposta sia da cercare altrove, fuori dai canoni normali. Si imbatterà così
nel Wrenwood Center, una specie di comune dal regime piuttosto spartano a metà
tra una clinica salutistica ed un centro religioso che sorge in pieno deserto
nel New Mexico, fondata da tal Peter Dunning (Peter Friedman) uno scrittore a
sua volta malato di AIDS, atteggiato a una sorta di guida spirituale tutto
peace-&-love, introiezioni
taumaturgiche e ricerca del vero se stesso. Ma, come diceva giustamente Corrado
Guzzanti nel suo felice personaggio del seguace di Qhuelo, sintetizzando il
concetto in quella che non è mai stata soltanto una battuta spiritosa: “La
risposta è dentro di te, e però è sbagliata”.
Dal canto suo, peraltro, nemmeno Todd Haynes (regista che
ama stare fuori dagli schemi dello show-biz, per quanto gli sia possibile,
firma affermata del cosiddetto cinema indipendente del quale non va dimenticata
la meritoria e spesso fortunata attività di produttore e promotore di molti
registi in cerca di spazio e visibilità, come nel caso dell’ottima Kelly
Reichardt della quale ha prodotto praticamente tutti i film), nemmeno Haynes,
dicevo, si azzarda a dare una risposta che voglia essere troppo precisa, e
persino nel fissare i contorni della vicenda e dei personaggi evita con buon stile
di definire con troppa nettezza quali siano i confini, spingendosi oltre ai
quali si correrebbe il rischio (che Haynes dribla con maestria) di giocare un
ruolo manicheo da benpensanti dediti allo smantellamento delle versioni altrui.
(continua a leggere...)
..
E così Carol è, al tempo stesso, tanto una casalinga ingenua e mediocre quanto
una preda dei famelici “Tempi Moderni”, è una sempliciotta che si accontenta
delle sue belle borsette e insieme una paladina della causa ambientalistica,
una fortunata borghese quanto una vittima dello scetticismo di coloro che la circondano
nei confronti della reale sussistenza dei suoi disturbi; e casomai è proprio
l’incosapevolezza di essere insieme tutte queste cose che fa di Carol un
personaggio nebuloso e poco empatico, né eroe, ma neppure anti-eroe, vittima e
complice di un destino che non a caso la perseguita proprio in virtù del fatto
che nemmeno lei si rende conto di quante cose disponga (la bella casa, i soldi,
la famigliola, il consumismo...), e che la porta fino ad ammalarsi esattamente
di over-dose di abbondanza. D’altra parte, proprio l’unica, vera occasione di
riscatto e occasione finalmente di una vera libertà e (perché no?) di vera
felicità che “il destino” le porge nei tratti finali del film attraverso il
personaggio di Chris, un giovane anche lui residente al Centro che le manifesta
chiaramente la speciale “simpatia” che prova per lei, Carol non è in grado di
coglierla, annebbiata com’è dai suoi schemi mentali.
Suo marito Greg, come già detto prima, è marito ligio al dovere, lavoratore
indefesso, sempre pronto alla parolina dolce, ad assecondare e/o ad aiutare la
moglie nelle peripezie degli strani eventi che la coinvolgono, presente quel
tanto che il lavoro gli consente e che la patente di “buon padre di famiglia”
gli richiede. Ma è anche l’uomo che dalla sua donna cerca sempre il “sì”, che
si adombra per i mal di testa strategici di lei, che “monta sopra” chiedendo
solo formalmente il permesso e senza interessarsi se “quella sotto” sia o meno
della partita in gioco, mentre a suo figlio riserva ora parole di incoraggiamento ed encomio, ora
perentori e scorbutici ordini, scanditi sbrigativamente.
Ma è soprattutto col personaggio di Peter, il padre fondatore della Comunità di Wrenwood, che Haynes sfoggia le sue doti di equilibrismo e dimostra la sua riluttanza non tanto nel prendere posizione, quanto nel dare valutazioni o valori alle varie posizioni: il sedicente scrittore è infatti certamente dipinto come il più classico dei falsi profeti (il Qhuelo di Guzzanti, appunto), dei parolai farabulani stile new-age (il film, ricordiamolo, è del 1995) che infinocchiano il prossimo con la stessa naturalezza con la quale hanno infinocchiato se stessi, del predicatore olistico penso-positivista che rimanda la causa di tutti i mali all’io represso, brutto e cattivo. Ma nemmeno la sontuosa, candida villa che sovrasta il Wrenwood Center dove Peter alloggia (inquadrata solo un istante e da lontano, del quale interno lo spettatore può solo immaginare) servirà al regista da pretesto per formulare un giudizio o a creare un’opinione, tant’è che come finale, Haynes non sceglie proprio nessun finale: il finale (non anticipo nulla...) è semplicemente una bravissima Julianne Moore (qui in una delle sue normali, prestigiose performances) dentro al suo specchio, una Carol ancora e sempre sconosciuta a se stessa, magrissima ed emaciata, intenta a sussurrarsi frasi non sue che non comprende, e probabilmente non comprenderà mai come e perché le scivolino addosso, inutilmente, senza guarirla.
Lungi dall’essere un film socialmente impegnato nelle tematiche ambientalistiche o salutistiche (al contrario: un certo sarcasmo aleggia sornione proprio nei confronti anche di questi argomenti, ed è interessante notare come anche la “beniamina” di Haynes, già citata Kelli Reichardt, si sia cimentata col suo “Night Moves” sugli stessi temi), “Safe” è certamente un film che parla schietto di contraddizioni, di ambiguità, di argomenti irrisolti quando non addirittura irrisolvibili, di ipocrisie che sembrano innocenti, ma diventano ancor più pericolose e subdole quando siano riuscite a scavarsi una tana dentro di noi, arrivando ad anestetizzare l’intelligenza e l’umana capacità di discernimento, ancor prima di essere riuscite a corromperne la coscienza; è un puntuale ritratto di un’America superficiale e distratta, appesantita, incapace di gestire i disagi che essa stessa si procura.
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