I fantasmi non muoiono mai, per loro stessa definizione. Se
a noi europei tocca e toccherà ancora non si sa per quanto confrontarci con gli
spettri del novecento, del nazismo, dell’antisemitismo, delle crudeltà assurde al
superamento delle quali tentano di fondarsi (ancora e non si sa per quanto, con
risultati tutto sommato mediocri) i nostri attuali princìpi e schemi di
convivenza (lontanissimi dall’essere perfetti, naturalmente...), oltre oceano,
ad Hollywood, ci si prodiga ancora nello spalmarsi balsamici unguenti sulle mostruose,
ancora non evidentemente cicatrizzate ferite ora dello sterminio dei nativi “indiani”,
ora dello schiavismo che sarà poi più tardi, come nel caso di questo Oscar 2014
“12 Years a Slave”.
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Giovi però ricordare come la memoria, anch’essa eterea e inconsistente quanto i fantasmi a cui rimanda, può essere esercitata in diverse maniere. E se in ambito europeo la tragedia del novecento è stata resa, limitandoci a tempi ed opere vicini, anche con film come “Train de Vie”, “Adam Resurrected”, o “Inglorious Basterds” (americani questi ultimi due , in omaggio, alla glocalizzazione che prima o poi finirà per miscelare ogni fantasmatica memoria...), dopo aver visto questo film non si può non essere tentati di riandare (ritornare), con struggente nostalgia, incontro al genio di Quentin Tarantino e al suo recente “Django Unchained”: laddove il genio tarantiniano disegna con i colori vivaci e intelligenti del grande artista la tela buia dell’America schiavista, la non-genialità ordinaria e mestierante di un bravo ed onesto non-genio alla Clint Eastwood come McQueen (che pure ha saputo brillare laddove ha voluto astenersi dalle disamine storiografiche come nel caso del recente “Shame”, un po’ come Eastwood è in fondo sopportabile finché non si butta a raccontare Mandela e si limita agli algidi amanti di Madison County) sa usare solo “Il Colore Nero” (per parafrasare quello “Viola” di Spielberg che non per niente data oramai 30 anni fa) per inscenare una storia i cui i 12 anni di durata passano con la stessa indifferenza e superficialità con cui si cancellano in dieci minuti gli indirizzi di posta elettronica temporanei.
“10 Minutes a Slave” sarebbero bastati per raccontare la
storia in cui il nero Pinocchio, ingannato dal Gatto e la Volpe, (tra)passa dal
mondo libero attraverso le piantagioni di canne da zucchero e cotone, tra le
fruste e le corde per gli impiccati, tra i bianchi mezzi buoni, quelli tutti
cattivi, le bianche signore sui bianchi terrazzi che li osservano tutti quanti (perlopiù
silenti, a tratti avvelenate), tra il dolore della sua stessa razza che,
intenta a costruire bambole di paglia, non si capacita di essere stata
strappata ai figli o di non poter anelare ad un pezzo di sapone, tra caporaletti particolarmente crudeli accessoriati
con cappellino all’Arancia Meccanica o i salvatori barbuti alla Lincoln (Brad
Pitt, per quel che mi riguarda, è il benvenuto sempre e comunque!), per
ritornare, allagato da un fiume di lacrime sufficiente a bollire il più grasso
dei tacchini del Tanksgiving, alla sua legittima, già libera famiglia, direttamente
dotato di nuovi nipotini ed extra-nuore a titolo compensativo e risarcitorio di
un oscuro senso di colpa, quest’ultimo tutto, indiscutibilmente bianco.
Fatte salve le buone prestazioni attoriali e qualche scena indiscutibilmente toccante (una per tutte: quella in cui Solomon-Platt/Chiwetel Ejiofor riesce finalmente ad unirsi al canto degli altri schiavi, un Fassbender superlativo in ogni primo piano), un film tutto sommato deludente, confusionario e confondente nella costruzione temporale, scontato e già visto in molte altre occasioni.
Fatte salve le buone prestazioni attoriali e qualche scena indiscutibilmente toccante (una per tutte: quella in cui Solomon-Platt/Chiwetel Ejiofor riesce finalmente ad unirsi al canto degli altri schiavi, un Fassbender superlativo in ogni primo piano), un film tutto sommato deludente, confusionario e confondente nella costruzione temporale, scontato e già visto in molte altre occasioni.
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