Più che attraverso l’odore, Giovanni credo che imparò a
conoscermi e ad affezionarmisi attraverso le braccia ed il cuore, giusto una
ventina di giorni dopo che si era stabilito qui con me insieme a Simona. Era
giugno anche allora, il giugno di diciotto anni fa, Simona era al lavoro ed io
in casa a coadiuvare il lavoro degli imbianchini chiamati a rinfrescare il mio
appartamento stantio in occasione dell’arrivo dei nuovi occupanti. Uscendo per
pedalare in fretta e furia verso un negozio di vernici vicino casa, vidi i due
gattini bianconeri (Giovanni ed un suo sosia quasi perfetto) rincorrersi giocosamente
davanti al cancello di casa, sul ciglio della strada. Il tempo di fare una
decina di metri: un tonfo sordo, una Ypsilon 10 verdina che rallenta, accosta,
guarda attonita nello specchietto, riparte. Vedendo uno dei due riverso
sull’asfalto con gli occhi sgranati, tornando precipitosamente sui miei passi
pregai dio che potesse essere toccato all’altro gatto, ma il collarino rosso
che adornava tintinnante il collo di
quello investito spense subito ogni mia speranza.
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Lo presi in braccio, non
perdeva sangue, ma respirava immobile. Con la mente mi sforzai di ricordare
dov’è che avessi mai visto, nei pressi di casa mia, un’insegna di un ambulatorio
veterinario, e presi a correre verso quella probabile direzione. Nel frattempo,
Giovanni si era “ripreso” dai primi effetti della botta, si era riscosso e
aveva preso a mandare delle grida strane, strazianti, sincopate, che non
avevano neppure nessuna somiglianza con un verso che potesse essere attribuito
ad un felino, piuttosto quello di una creatura inventata dalle favole, a metà
strada tra un’anatra uscita di senno ed un piccolo orco indispettito. Aveva
cominciato a cercare di divincolarsi con forza, graffiandomi tutto, tanto che
mi accorsi solo una volta tornato a casa che stavo indossando una maglietta
tutta imbrattata del mio stesso sangue, ma continuavo a trattenerlo ancora più
forte, serrandolo al mio petto, la bici con una mano sola, “Dov’è? Dov’è questo
cazzo di ambulatorio??”
Dopo i primi immediati esami, il duo di giovani veterinari ci volle dare, forse complice una professionale cautela, poche speranze: nessuna frattura, nessuna lesione interna, ma un fortissimo trauma cranico e una compressione toracica del tutto rilevante, oltre allo spostamento lieve di alcune vertebre all’altezza delle scapole.
“Andate, andate pure”, ci dissero quando seppero che avevamo in programma di partire nelle ore successive per un breve soggiorno di un paio di notti presso un casolare sull’Appennino Tosco-Emiliano, a celebrare con gli amici i riti della Notte delle Streghe. Dissero che il micio avrebbero comunque dovuto trattenerlo ricoverato, che la nostra presenza non era necessaria per i giorni immediatamente successivi, e consegnandoci il biglietto da visita con il loro numero di telefono ci consigliarono di prenderci un po’ di distrazione senza sentirci per questo in colpa o manchevoli di qualcosa. “Andate”, dissero “Ma non fatevi troppe illusioni di poterlo ritrovare... al vostro ritorno...”.
Al ritorno, intanto che pure Simona si era seriamente infortunata ad una caviglia sfidando con un salto ardito ed impreciso l’esagerato falò propiziatorio della Notte di San Giovanni, trovai Giovanni in compagnia del sorriso soddisfatto ed autocompiaciuto dei due medici che mi annunciavano l’avvenuto superamento della fase più critica. Si alzò barcollante dal giaciglio metallico del banco operatorio sul quale si trovava e non gli fu nemmeno necessario guardarmi: si alzò sul posteriore, e con uno strano verso finalmente di nuovo felino, mi appoggiò le due zampine sul petto, quasi in piedi, un orsetto ammaestrato, come se stesse salutando, riconosciutolo, il grembo che lo aveva soccorso e salvato tre giorni prima.
Quell’incidente segnò in qualche modo la sua esistenza per sempre: anche se riprese tutte le sue normali funzioni, ancora oggi mantiene una certa rigidità all’altezza delle scapole, alcuni movimenti quando si sforza di coprire i suoi bisogni sono a scatti e come se gli riuscissero difficili, ed un brusco e curioso scrollamento di spalle che si dà ogni volta che balza rumorosamente e poco elastico giù da qualche altezza, sta lì, eterna testimonianza del suo memorabile incidente e di come scampò brillantemente ad una sorte che era sembrata ineludibile.
Per tutta la sua lunga vita e ancora oggi, Giovanni ha sempre gradito l’essere preso in braccio: si adagia fiducioso sulla mia spalla, prende tutte, fino alla mia ultima carezza, ancorato saldamente con le unghie alla maglia di turno, finge di pensare ad altro guardando il mondo che si aggira alle mie spalle, e non chiede quasi mai di scendere prima che qualcosa, silenziosa dentro di me, gli dica che è ora di scendere.
Dopo i primi immediati esami, il duo di giovani veterinari ci volle dare, forse complice una professionale cautela, poche speranze: nessuna frattura, nessuna lesione interna, ma un fortissimo trauma cranico e una compressione toracica del tutto rilevante, oltre allo spostamento lieve di alcune vertebre all’altezza delle scapole.
“Andate, andate pure”, ci dissero quando seppero che avevamo in programma di partire nelle ore successive per un breve soggiorno di un paio di notti presso un casolare sull’Appennino Tosco-Emiliano, a celebrare con gli amici i riti della Notte delle Streghe. Dissero che il micio avrebbero comunque dovuto trattenerlo ricoverato, che la nostra presenza non era necessaria per i giorni immediatamente successivi, e consegnandoci il biglietto da visita con il loro numero di telefono ci consigliarono di prenderci un po’ di distrazione senza sentirci per questo in colpa o manchevoli di qualcosa. “Andate”, dissero “Ma non fatevi troppe illusioni di poterlo ritrovare... al vostro ritorno...”.
Al ritorno, intanto che pure Simona si era seriamente infortunata ad una caviglia sfidando con un salto ardito ed impreciso l’esagerato falò propiziatorio della Notte di San Giovanni, trovai Giovanni in compagnia del sorriso soddisfatto ed autocompiaciuto dei due medici che mi annunciavano l’avvenuto superamento della fase più critica. Si alzò barcollante dal giaciglio metallico del banco operatorio sul quale si trovava e non gli fu nemmeno necessario guardarmi: si alzò sul posteriore, e con uno strano verso finalmente di nuovo felino, mi appoggiò le due zampine sul petto, quasi in piedi, un orsetto ammaestrato, come se stesse salutando, riconosciutolo, il grembo che lo aveva soccorso e salvato tre giorni prima.
Quell’incidente segnò in qualche modo la sua esistenza per sempre: anche se riprese tutte le sue normali funzioni, ancora oggi mantiene una certa rigidità all’altezza delle scapole, alcuni movimenti quando si sforza di coprire i suoi bisogni sono a scatti e come se gli riuscissero difficili, ed un brusco e curioso scrollamento di spalle che si dà ogni volta che balza rumorosamente e poco elastico giù da qualche altezza, sta lì, eterna testimonianza del suo memorabile incidente e di come scampò brillantemente ad una sorte che era sembrata ineludibile.
Per tutta la sua lunga vita e ancora oggi, Giovanni ha sempre gradito l’essere preso in braccio: si adagia fiducioso sulla mia spalla, prende tutte, fino alla mia ultima carezza, ancorato saldamente con le unghie alla maglia di turno, finge di pensare ad altro guardando il mondo che si aggira alle mie spalle, e non chiede quasi mai di scendere prima che qualcosa, silenziosa dentro di me, gli dica che è ora di scendere.
(segue)
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