martedì 30 giugno 2015

N-Capace - Eleonora Danco (Ita 2015)

 
 E dire che mi ero fatto un nodo al fazzoletto quando avevo sentito, qualche mese fa, la puntata del radiofonico "Hollywood Party" in cui era ospite Eleonora Danco per presentare il suo film... Compresa la natura di “N-Capace” (e al tempo stesso molto preso dalla personalità dell’autrice/attrice che sentivo trapelare dalle sue risposte), mi ero fatto poche illusioni di poterlo visionare in sala, mentre invece i ripetuti successi in ambiti festivalieri e, in maniera forse determinante, l’interesse riservatogli da Nanni Moretti e dal suo “Sacher” romano, me lo hanno portato fin sotto casa alla 51^ Mostra del Cinema di Pesaro, dove il pubblico ha tributato, alla proiezione prima e alla stessa elettrizzante Danco presente in sala,  un pieno successo del tutto meritato.


   Personaggio essa stessa del suo film (come lei stessa ha spiegato) e non semplicemente “l’io narrante” di un’esposizione autobiografica nella quale si mette comunque indiscutibilmente in gioco (una delle figure principali fra quelle proposte è quella di suo padre), Danco propone una carrellata irresistibile di personaggi e battute, dialoghi/intervista col mondo dell’adolescenza e della senilità, accomunati da quello status di “stand-by” nei confronti della vita che “la generazione di mezzo” (quella attiva, a detta della regista: la peggiore) è per sua natura impossibilitata ad avere.

   

Forte della sua esperienza teatrale, Eleonora Danco, indovinando pressochè ogni cosa (dalla scelta delle battute, al ritmo del montaggio, alle pose e alle inquadrature tipicamente teatrali, attingendo a piene mani da una serie di riferimenti sia del mondo del teatro che di quello della pittura e della letteratura) riesce a divertire, a far riflettere, magari a suscitare qualche sana nostalgia o qualche sano rimpianto (e perché no? qualche sana invidia, visto quanto sono belli tutti i ragazzi nel suo film).

   Un piccolo, grande film, imperdibile per chi ha la fortuna di poter non perderlo, per il quale una distribuzione “normale” nelle sale o nei circuiti televisivi sarebbe più che doverosa.

I Am Not Him - Tayfun Piselimoğlu (Francia 2014)

  Nihat e Ayse non sanno che si sta per inscenare, incentrato sulle loro vite, un gioco di scambio di identità tanto curioso quanto conturbante... Lo scambio di ruoli non è soltanto frutto e conseguenza di straordinarie somiglianze germane, ma è quasi un accanimento fatale che la vita riserva loro nel voler replicare, attraverso il gioco di specchi, i ruoli e le vicende, ora a parti invertite, ora con ruoli sovrapposti, incurante dei misteri nei quali tutto ciò si inserisce, come se “il mistero”, l’inspiegabile, e infine l’adattamento a cui si è costretti da tali eventi, fossero essi stessi parte delle regole del gioco e non una loro imprevedibile eccezione.






   In questo, Tayfun Piselimoğlu, regista turco di Trabzon tra i fondatori della “Akademie Genius”, artista a tutto tondo che affianca alla quello per la regia cinematografica anche i talenti di pittore e scrittore, è un vero maestro, e nonostante abbia dichiarato che con questo “I Am Not Him” (il suo ultimo film che al Festival di Roma dello scorso anno aveva ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura) avesse voluto discostarsi dalla precedente trilogia imperniata appunto sul tema della identità, come ha egli stesso confessato, molti critici hanno voluto vedere in quest’opera il “quarto” film di quella che diventa dunque una tetralogia.






   Il film era inserito nella retrospettiva completa del regista alla 51^ Mostra del Cinema di Pesaro....

venerdì 26 giugno 2015

Terra - Marco De Angelis, Antonio Di Trapani (Ita 2015)

   Insopportabile, mal (-issimo) riuscito tentativo di imitazione di un cinema che vogliasi dire ora visionario, ora “sperimentale”, ora “a-kul-turato”, che tenta di fare il verso ora a Herzog, ora a De Oliveira (e perché no? pure le copertine degli album degli U2),  e che finisce invece per mettere insieme un’accozzaglia di immagini in sequenza random, ora distorte, ora di repertorio/colorizzate, ora natural/ambientalistiche, alternando con pessimo gusto e nessun estro (a meno che non sia “estro” quello di una comune CPU pre-pagata e senza meningi) una ridondante e sterile polivalenza ora cromatica, ora linguistica (con l’accento e la voce inglese di Angela Carbone si raggiunge il climax...) che serve solo a perdere, se mai ci fosse stato, un filo non dico logico, ma almeno costruttivo (faccio l’offerta massima: descrittivo! Di più, non so...)


   Hai voglia a dire (loro, i registi, alla presentazione in sala, vestiti gemelli come fossero dentro un programma di Italia Uno) che del cinema realistico se ne strapippano, sapessero di che pippa sono stati gli artefici... Meglio ricominciare da capo, ragazzi, e riprendere quota pian pianino.


   Film in concorso (?!?!?) alla 51^ Mostra del Cinema diPesaro.
          (vabbè, dai... Pesaro è stata capace pure di peggio...).
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giovedì 25 giugno 2015

La Madre del Cordero - Rosario Espinosa, Enrique Farías (Cile 2014)

   I ricatti del sangue, delle convenzioni, dei comandamenti, del “così sia”. Il prete è onesto, non c’è che dire: ammette di non saper interpretare i sogni che Cristina gli confessa come fossero peccati, che gli  racconta delle due formiche che parevano una sola ma eran due, una sopra l’altra, e una portava l’altra, “su hermana”, malata, sulle spalle, e tornava a riprendersela una volta, due, tre... basta, dopo tre...
E’ onesto il prete, le corse dei cani e le scommesse (e i debiti) sui cani che corrono dietro ai coniglietti simili a quello regalatole per il compleanno, sono oneste le amiche della mamma che ragionano normale, il cugino tamarro e inguardabile, le slot machines, il telefono che la mamma chiama e lei corre, corre...
Sandra, invece, turba. Turba perché non ha l’aria onesta. Era una  vecchia amica, è un’amica, poi ti bacia, come se fosse normale, come se fosse onesto, e non le pare onesto, a Cristina, che un’amica la baci in un pomeriggio qualunque trascorso insieme. E invece è onesto il contrario, Cristina lo capisce solo alla fine: la formica, la quarta volta, non torna indietro...


   Il film cileno firmato da Rosario Espinosa e Enrique Farías contiene di una violenza sopita, latente, ingannevolmente nascosta sotto la pelle di tartaruga di una candida vecchina e che si irradia nelle rughe più giovani dell’agnello che ha generato, fedele, immolato, rinunciatario. Pecca (il film) di tanto in tanto nel voler darsi un tono che non merita (la scena del ballo fatale tra le due amiche, inquadrato con una turbolenza yankee deviante ed impropria è quella che più tradisce), mentre eccelle in altre  scelte estetiche (i colloqui/confessioni col sacerdote, i due che non si guardano, Cristina alle spalle, ma che a sua volta sembra dare le spalle, idealmente, all’interlocutore). E’ un film intelligente, in qualche modo elementare, in qualche modo molto profondo.

   Nota curiosa: nella soundtrack, anche la versione spagnola di “Mister Mandarino” un vecchio hit dei Matia Bazar di fine anni ’70.


   Film in concorso alla 51^ Mostra del Cinema di Pesaro.
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martedì 23 giugno 2015

La Mujer de los Perros - Verónica Llinás (Argentina 2015)


   Un film silente, forse una favola, una donna senza nome circondata dalle forme dei suoi pensieri (i cani), impercettibili, indecifrabili, sospesi in un’esistenza forse folle, forse magica, povera e forte, dentro una jungla truccata da capitale mondiale (Buenos Aires), simile al “prima” di un Eden blasfemo e palindromo dal quale l’uomo (anzi, la donna: Veronica Llinàs), abbia scacciato dio.



   Punteggiato, non prima che siano trascorsi venti minuti buoni di apnea, da spunti musicali di notevole pregio ed effetto quasi tutti in ritmo dispari (è un’altra donna a firmarli: Juana Molina),  è il secondo film in concorso alla 51 Mostra del Cinema in corso di svolgimento a Pesaro.

A Minor Leap Down - Hamed Rajabi (Iran 2015)


    Una porta bianca e una donna nera: ecco come comincia, rimuginante e lentissimo, il riflessivo film del trentenne iraniano Hamed Rajabi. Nahal, donna depressa e insoddisfatta incinta di quattro mesi, scopre, nerovestita, uscendo dal candido studio ginecologico ove si è recata per un controllo, di essere in realtà madre di un feto già morto nel suo grembo. Come se la morte stessa si fosse impossessata di lei, fagocitandola dall’interno, subito il mondo che la circonda le appare improvvisamente ostile: la giovane puerpera che le si siede accanto nella sala aspetto dello studio e che tenta con lei il solito approccio forzosamente intimo e amichevole di due future , giovani mamme, debitamente informata da Nahal con disarmante schiettezza del non lieto evento, le si discosta subito, prima di qualche centimetro, poi alzandosi per andare a sedersi altrove. Nahal (o meglio, la morte che è in lei), già alle prese con problemi pregressi di depressione più o meno conclamata, avverte (o crede di avvertire) attorno a sé, nella famiglia, nella cerchia di amicizie, nel posto di lavoro, come una sorta di ostilità e di ostracismo nei suoi confronti: decidendo di non informare nessuno dell’accaduto, e conservando dentro di sé il segreto di quella tragedia, la protagonista cerca (e forse trova) la conferma di essere calata in una realtà che non le è congeniale, nella quale è sostanzialmente estranea, non accettata, nemmeno dai parenti più stretti o dal povero marito Babak, vittima prediletta del disperato sfogo che Nahal si concede nel periodo immediatamente successivo. 

   Trascorre così alcuni giorni, prima che il segreto non possa essere più taciuto, a vessare in ogni maniera il mondo circostante, reiterando una serie di comportamenti irrazionali, pazzoidi, (auto) distruttivi, e sempre senza una sbavatura, senza un’esitazione, senza una piccola smorfia sul viso che possa smascherarla, sempre negando psico-patologicamente ogni evidenza e anzi, rilanciando ogni volta indietro accuse e sospetti, con l’abilità e la pervicacia di un campione (e baro) di poker. In realtà, Nahal è semplicemente una donna disperata che non trova altro modo di reagire se non quello, come una pentola a pressione che non possa sfogare al di fuori la sua rabbia e che pertanto rivolta su se stessa (cioè sul microcosmo che abita e col quale condivide l’esistenza) la furia degli elementi che la agitano. Unica luce: un gattino, un cucciolo, sbucato da un cartone, che per un attimo, brevissimo, le accende un tiepido sorriso e le ridona per un istante le fattezze interiori di una coscienza umana e ragionevole.
Il film è molto asciutto, a tratti la tragedia interiore che sfocia in atteggiamenti grotteschi (l’abito comprato senza neppure misurarlo, prezzo pagato: pari a due mesi e mezzo d’affitto; l’incidente voluto di proposito con la macchina; l’invito all’inaugurazione della nuova casa a base di solo di succo d’arancia offerto in piedi agli ospiti sbigottiti) prende un risvolto comico (tragicomico, ovviamente), ma il profondo disagio della donna, così profondo da non poter essere condiviso con nessuno (“Cos’è che ti far star male?” le chiede più di una volta suo marito. “Non lo potresti sopportare”, gli risponde Nahal) così intenso da provocare il rifiuto di estenderlo e condividerlo con altri che non sia lei stessa, da origine a un film basato  sull’incomunicabilità, sul dolore che abbruttisce, sulla (s)fiducia in ciò che ci circonda e prima ancora in se stessi.

   Dopo essere già stato proposto alla Berlinale della scorsa edizione, alla 51^ Mostra del Nuovo Cinema in corso di svolgimento a Pesaro è il primo film in concorso.  
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venerdì 19 giugno 2015

Safe - Todd Haynes (USA - 1995)

 

   Carol (Julianne Moore) è una giovane sposina timida, premurosa ed infelice della ricca borghesia della Los Angeles di fine anni ’80. Vive con suo marito Greg (Xander Berkeley), un uomo d’affari  e Rory, il figlio di prime nozze di Greg, un bambino di 10 anni col quale intrattiene un rapporto di fredda amorevolezza piuttosto distaccata e più che altro funzionale al quieto vivere con il suo uomo. Greg, per parte sua, è un brav’uomo e un bravo marito, ma già dalle prime scene, dal lungo amplesso tra i due al quale lui è l’unico a partecipare veramente mentre lei ne attende, con la pazienza della brava mogliettina, solo la fine, appare chiaro che il loro sia un rapporto più di facciata che di sostanza, o meglio, dove la sostanza è finta, ed è più che altro utile ad imbiancare la facciata. 


   In questa situazione, riempendo i vuoti della sua vita con ginnastiche giovanilistiche, frivole diete a base di sola frutta, ora in compagnia delle sue amiche di pari rango e qualità intellettuale, ora intenta a costruire un senso per se stessa dedicandosi al giardinaggio o  al nuovo design per la sua bella casa, Carol incomincia misteriosamente ad avvisare strani sintomi legati alla respirazione: tossi non addomesticabili, attacchi d’asma, a volte vomito e perdita improvvisa della memoria. Alle prime analisi, il medico di famiglia non ravvisa nulla che vada oltre un normale stress, e tenta di risolvere il caso ricorrendo solo a blande pomate per gli sfoghi cutanei e ad una dieta che reintroduca carne e proteine. Ma col protrarsi e l’intensificarsi dei sintomi, sempre più marcati e indecifrabili, Carol, accompagnata sempre dall’onesto Greg, si rivolge ad alcuni specialisti, un immunologo prima, poi uno psichiatra, imbattendosi infine in un volantino appeso nella bacheca del centro benessere che frequenta e che le spalancherà la porta verso la ricerca di una soluzione “olistica” a quel disagio per il quale la medicina ufficiale, con sua stessa ammissione, sembra non essere all’altezza di proporre un rimedio.

   Man mano sempre più coinvolta nella scoperta di quelli che sono “le nuove malattie legate all’ambiente”, della presunta,  sostanziale velenosità che ci assedia e ci insidia lì dove viviamo (gas di scarico, fumi industriali, spray, vernici, alimenti, persino il nuovo, fantastico divano color tè “assolutamente tossico”), autonomamente o in forza con un gruppo di persone affette dai medesimi disturbi al quale approda seguendo le tracce del volantino, Carol si convince sempre di più che la risposta sia da cercare altrove, fuori dai canoni normali. Si imbatterà così nel Wrenwood Center, una specie di comune dal regime piuttosto spartano a metà tra una clinica salutistica ed un centro religioso che sorge in pieno deserto nel New Mexico, fondata da tal Peter Dunning (Peter Friedman) uno scrittore a sua volta malato di AIDS, atteggiato a una sorta di guida spirituale tutto peace-&-love,  introiezioni taumaturgiche e ricerca del vero se stesso. Ma, come diceva giustamente Corrado Guzzanti nel suo felice personaggio del seguace di Qhuelo, sintetizzando il concetto in quella che non è mai stata soltanto una battuta spiritosa: “La risposta è dentro di te, e però è sbagliata”.


   Dal canto suo, peraltro, nemmeno Todd Haynes (regista che ama stare fuori dagli schemi dello show-biz, per quanto gli sia possibile, firma affermata del cosiddetto cinema indipendente del quale non va dimenticata la meritoria e spesso fortunata attività di produttore e promotore di molti registi in cerca di spazio e visibilità, come nel caso dell’ottima Kelly Reichardt della quale ha prodotto praticamente tutti i film), nemmeno Haynes, dicevo, si azzarda a dare una risposta che voglia essere troppo precisa, e persino nel fissare i contorni della vicenda e dei personaggi evita con buon stile di definire con troppa nettezza quali siano i confini, spingendosi oltre ai quali si correrebbe il rischio (che Haynes dribla con maestria) di giocare un ruolo manicheo da benpensanti dediti allo smantellamento delle versioni altrui.

(continua a leggere...) 
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