lunedì 22 dicembre 2014

Old Joy - Kelly Reichardt (USA 2006)

   
 C’è un che di disarmante nel modo che ha Kelly Reichardt di proporre i suoi lavori, disarmante ed entusiasmante insieme: da una parte, coloro che ad un film, alla storia che racconta, al susseguirsi degli eventi chiede spassionatamente “qualcosa”, che accada “qualcosa”, che gli venga offerto un susseguirsi di “qualcosa”, davanti a film come questo “Old Joy” (come sarà poi anche due anni più tardi col bellissimo “Wendy & Lucy”) rischiano di rimanere spiazzati, paradossalmente confusi, spesso e volentieri tristemente annoiati. Dall’altra, coloro che hanno la capacità e la pazienza di accorgersi di come tutto ciò che si vuole far accadere (e sono personalmente convinto che non sia affatto poco) accada “dentro” i personaggi, nascostamente, preziosamente racchiuso in pochi, piccoli gesti ben inquadrati (un cenno del capo, un saluto fugace, una stretta di mano), trovano certamente in questa regista della Florida, agganciata a quel circuito definito come “indipendente” ed a firme che accompagnano i suoi lavori del calibro di Todd Haynes (solo per dirne una), una fonte preziosissima di sano intrattenimento.

    Sembra che non accada nulla di importante nella “scampagnata” tra i boschi di Kurt e Mark, due vecchi amici molto diversi tra loro, che rimpiangono la “Gioia che fu” di quando ancora circolavano i dischi in vinile e al posto delle yogurterie moderne c’erano le botteghe di commercio alternativo dei loro vecchi commilitoni, oggi spostatosi su E-Bay. Invece c’è il continuo interrogarsi dei due, la costante riflessione su ciò che sono e su come lo sono diventati, attraverso il continuo specchiarsi reciproco dentro una relazione che è sì quella di due amici sinceramente affezionati l’uno all’altro, ma che è anche altamente critica, mai indolente o autoreferenziata, sempre pronta ad incendiarsi non di astio, né di rancore (non potrebbero, essendo amici), ma di una pressante esigenza di capire se stessi anche e soprattutto attraverso l’altro. Che non è affatto comodo, né facile, perché i due, sinceramente amici, ricevono continuamente dall’altro il segnale che c’è “qualcosa che non va”, che la loro amicizia non ha ancora, dopo tanto tempo che si conoscono, tutti i requisiti per potersi definire completa, incondizionata. L’amicizia non è ancora tradotta in fiducia, e forse neppure in stima, è ciò richiede ai due uno sforzo eccezionale, che è poi il senso ultimo del film: in questo, altamente esplicativa, è la scena verso il finale in cui Kurt si avvicina a Mark per fargli un massaggio rilassante, e Mark cade in preda ad inspiegabili tensioni piene di tutta la contraddizione che pervade l’intera vicenda, e stenta (per poi riuscirvi) ad abbandonarsi tra le mani del suo amico. A questo climax, accompagnati dalla piccola cagnetta Lucy che, sempre col suo vero nome di Lucy sarà poi la co-protagonista del film successivo della Reichardt (nella realtà, Lucy, piccola diva,  è davvero la cagnetta della Reichardt), Mark e Kurt arrivano attraversando molti snodi fatti di involontari malintesi, di inconsapevoli battute che nascondono una potenziale mancanza di rispetto per l’altro della quale si accorgono sempre solo un istante dopo, quando rischia di essere ormai tardi, accompagnandosi sempre con la commovente volontà inespressa di volersi davvero bene e di accettarsi per quello che sono, in una diversità che è evidente sin da subito nel film, quando Mark è presentato come quello più stabilmente “posato” (una compagna, un lavoro, un figlio in arrivo, attività nel sociale) e Kurt quello più “Hippy”, sognatore, in cerca di una solidità che è il primo a non volere ma anche il primo a soffrirne per la mancanza.



    Due fantastici dialoghi, il primo nella notte all’addiaccio annaffiato di birra e tiro a segno contro i barattoli vuoti, quando Kurt tenta di esporre la sua teoria quantistica dell’universo, e quella in cui i due si prendono il loro bagno termale immersi in una natura in cui sembra quasi che sia vietato parlare, dove sempre Kurt (che, nella ripartizione dei ruoli,  è un po’ come la coppia di ruote trainante rispetto alla coppia di ruote passive, rappresentata da Mark), racconta del suo sogno con la donna indiana del negozio di PC, e dove il senso profondo di ciò che è “Old Joy” tenta di disvelarsi.
In mezzo a tutto questo (anzi: in capo e in coda a tutto questo), il “talk-show” radiofonico su temi politici, in cui l’America, rispetto alla quale Kelly Reichardt si pone giustamente con spirito indipendente, parla sostanzialmente di un vuoto che solo un’onestà privata e personale di ciascuno di noi con se stesso e col prossimo può riuscire a colmare.

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lunedì 8 dicembre 2014

Eventyrland (2013)


Il Paese delle Meraviglie (“Eventyrland”, in norvegese) non è più una fiaba. Al contrario: la fatica e la sofferenza con cui  le mani di un fata l’hanno ideata, costruita, pitturata e deliziosamente arredata, fanno della cameretta della piccola Merete il  luogo più concreto e tangibile del mondo, il Meraviglioso Paese cui  Jenny (la protagonista del film, una Silje Salomonsen ostinata e convincente, dolcemente fragile nella forza che il destino le impone di tirar fuori) ha dovuto rinunciare il giorno in cui la fiaba incantata del suo Grande Amore si è spezzata, e che cerca disperatamente di ricreare, lasciandola in dote per la sua bambina.
L’incipit del film è in un bosco silenzioso. Jenny e Gary, grosse tronchesi pesanti appoggiate sulla spalla di lui, tentano di dissimulare il nervosismo con cui stanno aspettando qualcuno, sperando che costui arrivi prima che faccia buio. Per Jenny  è l’occasione giusta per informare il suo ragazzo del fatto di essere incinta. Gary ne è felice, spunta una piccola fede rubata a chissà chi che presto si infilerà (quasi) per sempre nel dito di lei, in segno di rinnovato e rinforzato amore, prima che i due procedano insieme all’operazione per cui si trovavano lì, da soli, senza che la terza persona si sia fatta viva. Forzandone le catene che la chiudono, i due giovani, introducendosi in una grande serra, oltre ad un grosso fucile trovano ciò che stavano cercando, ma al posto di “innocente” erba da fumare, lo zainetto che aprono è pieno di droga pesante. Roba grossa, più grande di loro. Jenny esita, propone di mollare tutto, Gary invece pensa che presto avranno un bambino (già discutono sul nome da dargli), che hanno bisogno di danaro, la faccenda puzza anche a lui, ma forse conviene rischiare, son soldi. Nella serra irrompe qualcuno, qualcuno che non è la persona che stavano aspettando. Spari...
La fulminante scena-ponte color pastello di tenerezze scambiate tra una madre e la sua bimba appena nata che porta dall’incipit al corpo del film, musicata solo col rumore di  un battito cardiaco, postata di pochi secondi tra il sangue di un attimo prima e le sbarre di una cella di un attimo dopo, è il primo sigillo di qualità di questo bellissimo film norvegese firmato da Arild Østin Ommundsen, che è inaspettatamente un uomo. Dico così perché ritengo sia raro per un regista maschio concepire e realizzare un film così marcatamente al femminile: non solo Jenny ne è la protagonista, ma sua figlia, la piccola Merete che compare assai poco nel film ne è la corrispondente “materia oscura”, ciò che la vivifica e le da energia, movimento, sussistenza. E il tutto è immerso in un mare maschile fatto di “lui” : Gary, il fidanzato/padre (mirabile come, dopo oltre 20 minuti di morte  apparente, il regista sappia resuscitarlo agli eventi); il tipo che li ha fregati (a cosa servono gli amici, se non a rifilarti un tubo Pirelli dritto sulla nuca nei momenti critici?); la banda dei delinquenti che la ricatta e se ne fa scudo e gioco, fino all’idraulico, povero cristo che non c’entra niente con la storia, se non per essere uno dei mille che cerca di trarre profitto dalla povera Jenny e dai suoi stati di necessità.
Così come fa la colonna sonora (bizzarro uso, come nella scena dello zoo-safari in cui una musichetta domenical-festiva si protrae nei fotogrammi successivi, drammatici e tesi, con una continuità anomala e suggestiva), così Jenny attraversa la sua ostinata Odissea di eroina reietta e innocente fino ad un conclusione solo apparentemente paradossale, un “Happy-Ending” non conclamato, sicuramente da interpretare senza che sia necessario prenderlo alla lettera (si dovrebbe dire: al fotogramma), incentrato non a caso più sulla danza liberatoria e vincente della piccola Merete che non sui gesti improbabili del suo sventurato padre.

Molto bello.
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La Prima Volta


E così è stato.
        Quando scrissi la poesia “IlGiardino”, le volli subito bene. Forse perché voglio bene al mio giardino, alla mia casa in genere, la mia tana. O forse perché, attraverso quelle rime alternate,  infantili e sempliciotte, sentii subito che stava transitando efficacemente verso l’esterno il senso reale di ciò che covava nel mio animo. Che (dicono) sia ciò che veramente conta per una poesia e/o per il suo poeta.  Quando poi decisi di inviarla al primo concorso  cui abbia mai partecipato, venutomi a caso/non-a-caso... a cercare, lo feci con la più totale disillusione. Non a caso, appunto, mi definisco “PoEtaBeta”. E, colto dalla sorpresa di vedere “Il Giardino” classificarsi tra le migliori 15 poesie, selezionate tra un carnet di circa 300 (150 autori, partecipanti ciascuno con due opere), mi son dovuto lasciare spedire in orbita.
Vicino, vicinissimo: il Pianeta del Festival dei Due Parchi e del suo Quinto Concorso di Poesia organizzato dall’IPAEA è ad una frazione di anno luce infinitesimale lontano da qui, nemmeno 40 euro di treno andare e tornare: Ascoli Piceno (bella città: ruvida, primitiva, orgogliosamente  pietrificata... I Piceni, i Sabini, così erano e così sembrano essere ancora). Ci sono andato, e tornato, il tempo di uno scarno fine settimana, una missione spaziale lampo a cavallo tra due Parchi (Sibillini e Gran Sasso) e due Cieli  (quello pieno di sole di ieri mattina ad Ascoli e quello nero e ostile della Pesaro che mi ha ripreso solo poche ore dopo).
  Torno con una bella pubblicazione patinata, il mio nomecognome è scritto tra parentesi nelle prime trenta pagine. Un po’ mi voglio bene, come al mio giardino.  Un po’ mi odio, per non essere stato (ancora e sempre) in grado di cogliere i frutti che mi capitano a portata di mano, che potrei assaporare pienamente se solo sapessi avere meno paura.

Ad ogni modo: cin cin! 
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giovedì 20 novembre 2014

Ginger & Rosa (Sally Potter)

“Ginger & Rosa” nascono insieme sotto un fungo:  nell’istante in cui a Londra le loro rispettive madri si stringono forte la mano, sdraiate una accanto all’altra ciascuna nel proprio doloroso letto di travaglio, dall’altra parte del mondo, ad Hiroshima, ecco esplodere la prima bomba atomica. Le due bimbe crescono insieme, amiche per la pelle, nel freddo di quella fredda guerra che qualche bene informato dice non essere mai esplosa, mentre qualcun altro, forse informato meglio, garantisce essere tutt’ora crepitante in mille, più o meno grandi rivoli e focolai lontani, e che io, nel mio piccolo, credo invece scoppierà tutto d’un botto anche tre le nostre belle e pacificate pance quando, fin dentro i nostri disperati materassi/salvadanai, la bomba d’aria dentro cui  galleggia l’artificiale sistema economico/finanziario fatto di carta e che ci ha resi fin ora freddamente grassi, farà finalmente “BOOM!”, seppellendoci tutti sotto la venefica coltre di cenere dei nostri poveri (a quel punto: anche maleodoranti), polverizzati IBAN.
   Accantonati i debiti scongiuri, e per tornare al nostro film, “Ginger & Rosa” è un bel ritratto sulle conseguenze della paura: avvalendosi delle belle e giovani figure delle due giovanissime protagoniste (non me ne voglia la brava Rosa/Alice Englert, ma, ancor prima di me, la stessa regista ha voluto affidare a Ginger/Elle Fannning il timone della narrazione, fiutandone - a mio avviso con merito – l’indiscutibile, grazioso talento già due anni fa, quando aveva solo 14 anni), Sally Potter sa indicarci come diventi scivoloso il crinale della vita allorché ci si aggrappa eccessivamente alle certezze inverificabili (per dirla alla Ghezzi), alle aspirazioni insondabili, dalle manifestazioni di piazza che, da che so io, non hanno mai cambiato nulla di tutto ciò che non si sia cambiato da solo fregandosene altamente delle manifestazioni medesime (come non intenerirsi, ed arrabbiarsi insieme, dell’idealismo anoarcoide e libertino di Roland/Alessandro Nivola, il padre di Ginger,  e del suo reclamar diritti sociali e privati che nessuno gli potrà mai spiegare perché, in realtà, non gli spettino affatto), ai talenti personali (quello di Ginger, poetessa, e di sua madre, pittrice e dilettante musicista,  artiste nell’animo, perdenti nella Storia), che perdono “grip” deteriorandosi, non riuscendo a svincolarsi dalle paure che li generano (la “perdita” di un padre/marito, di una famiglia, dell’amica del cuore), fino alle ribellioni (in)cruente, pubbliche e private, di cui sono ottimi testimoni i tre personaggi di contorno:  Bella/Annette Bening (quale onore!), attiva nel movimento pacifista, Mark e Mark2/ encomiabili Timothy Spall e Oliver Platt, questi ultimi nei panni forse non casuali di angelicati omosessuali dediti con fervore alla custodia dell’anima di Ginger.
   Un bel film, una bella regia sensibile e attenta, una (ri)costruzione esatta (dentro e fuori) che sa viaggiare affiancata, senza sentirsene necessariamente partecipe, agli eventi storici tutto sommato trascurabili, una fotografia ed una luce (interiore ed esteriore) che, su me personalmente, hanno avuto il buon effetto (complici:  “tutti i frutti” che suona il juke box della mia personale memoria) di invitare ad una sana, postuma e sempre attuale riflessione.
Bella ed emblematica la scena finale: padre e figlia di spalle, poche parole e di poca intesa, lo sguardo basso... verso il futuro.  

 

martedì 4 novembre 2014

Maledetta, ti amerò

     
   Rimango piuttosto perplesso e dispiaciuto nel rilevare che una delle più frequenti ed accanite critiche contro il Maleficent”  di Robert Stromberg sia quella di imputargli la presunta colpa di non aver voluto distinguere nettamente il “Bene dal Male”. Constatato amaramente il fatto (e forse per analogia di genere cinematografico), con la mente sono istintivamente riandato alle vicende dei Baggins de “Il Signore degli Anelli”, e a tutte le volte in cui, compreso nel suo preambolo “Lo Hobbit”, accadeva esattamente la stessa cosa senza che nessuno (giustamente) se ne lagnasse. Quanto si mischiavano il Bene e il Male, per esempio, nei personaggi di Gollum, di Saruman, degli stessi Bilbo e Frodo, o degli Elfi Silvani, abitualmente ostili agli Hobbit (i “Buoni”) e pertanto, nella logica della contrapposizione, i “Cattivi”... Eppure l’opera di Tolkien, al quale Peter Jackson si ispira con cronometrica fedeltà,  è considerata testimonianza di un’etica alta e nobile, fino a raggiungere le vette e i gradi dell’insegnamento esoterico vero e proprio.

giovedì 23 ottobre 2014

La Chiave


Mi piace che t’inventi
   da dove entrare:


io, senza chiavi,
   son perso.
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lunedì 20 ottobre 2014

Di giugno


Capiterà di Giugno

come fu già la morte.
Così dirà la sorte

per le carezze nuove.
L’incontro che si muove.


La mano stenda il pugno.
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Fine del mondo vendesi

Fine del mondo vendesi,
saldo solo in contanti.
Aste al rialzo accettansi,
niente fughe in avanti.
Vietato bisbigliare:
ogni suggerimento
è ritenuto illecito
e causa d’annullamento.

Ufficio aperto al pubblico
solo il mercoledì.
Fine del mondo affrettasi,
oggi è già lunedì.
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mercoledì 15 ottobre 2014

Tanti auguri a me.

E così, com’è come non è, oggi spengo per la seconda volta ventisei candeline. Ringrazio tutti per gli auguri, in particolare coloro che, colpevoli o innocenti, distratti o solo assenti, non me li hanno ancora fatti (cacchio, e poi accidenti! Per la rima).

    Questa sera (con sangiovese, piadina e porchetta per ben lodare il Creato, morto e risuscitato) ho scelto di rimanere in casa a “festeggiare” non so cosa,  con i miei ricordi....

    Dei primi ventisei anni ricordo sostanzialmente tre cose. In ordine cronologico: il primo bacio (16 anni), la cessazione definitiva dell’obbligo di studiare (18 anni), la consistenza fisica e le pericolose/goduriose influenze  dell’apparato riproduttivo femminile esterno esercitate nei miei confronti (dato non pervenuto).

     Dei successivi ventisei, due: cosa significa e come si fa a cenare da soli (presa la decisione di lasciare la famiglia senza costituirne inutilmente altre), e il mio adorato micio, recentemente scomparso, l’unico che mai, di quella solitudine, sia stato più o meno coscientemente in grado di darmi anche solo una pallida, minima, convincente spiegazione.

     Dei prossimi ventisei, ovviamente, non conservo ricordo alcuno, a meno che non calarsi in qualche sci-fi movie o teoria animistica di bassa lega. Auspico però di poterne avere uno, uno solo, che a quelli che “La vita comincia a quarant’anni” ho sempre replicato: “Sì, hai ragione,  è vero: quella brutta”.

    Nell’augurarmi anch'io buon compleanno, mi e vi regalo una fantastica canzone, auscultabile al seguente link:



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mercoledì 8 ottobre 2014

L'Ebola per Noi (Karaoke)

Tra una cosa e l'altra, tra un job's act e un articolo diciotto in discussione, due rigori in croce alla JuveRoma da sbudellarsi a vicenda senza esclusione di colpi e in assenza di alcuna alluvione in atto (dicasi, modernamente: bomba d'acqua) ad allietare le nostre cancerose coscienze , il primo caso di Ebola approda nel Vecchio Continente. Un vero sospiro di sollievo. Cantiamoci su.
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E finchè non troveranno un buon motivo per cancellarlo, sta pure su quelli di IùTub.
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giovedì 2 ottobre 2014

Casa di Carne

“Casa di Carne” è un domicilio itinerante passionale ed intenso, entrati nel quale il ritmo incalzante di Francesca Bonafini,  consentendo rapidamente di sorvolare sulla sua sgangherata metrica incurante di punteggiature e congiuntivi  e al contrario ricca di locuzioni  raccapriccianti tipo : “stordita come una renna affumicata” o “decise che era ora di basta”, conduce il lettore sulle ali di Angela (creatura viaggiante  per antonomasia, la meno carnale che -non-  esista) verso una ricerca interiore quanto concreta, animale in quanto (appunto) anima, anima e carne per una volta coalizzati insieme (alla faccia di sampaoloapostolo) nella battaglia contro le infelicità e le insoddisfazioni inspiegate.
Altamente coinvolgente nella sua semplicità fluviale, la storia di Angela cattura in un sol colpo senza lasciare spazi vuoti, riempendo di partigiana empatia l’attenzione del lettore, al quale consiglio di approcciarsi più  con l’attitudine del ciottolo che con quella  del salmone per percorre al meglio (in risalita?) questo boat-book.

PS = auguro a Francesca la migliore fortuna per questo e per i successivi romanzi.
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giovedì 25 settembre 2014

Daniza

L'11 Settembre scorso, A.D. 2014, fatto di cronaca ancora fresco, ma che con l'andar del tempo puzzerà anche lui come fa il pesce dopo tre giorni, l'orsa Daniza, catturata in Trentino un mese avanti a causa del suo comportamente ritenuto essere diventato non sufficientemente sicuro per la popolazione, utilizzando a-tal-uòpo un iniezione anestetica, è morta poprio a causa delle conseguenze dell'anestetico.
Col dovuto rispetto per la popolazione del Trentino (contro la quale si è scatenata l'opione pubblica ingiustamente, essendo stata proprio la comunità trentina ad essersi pre/occupata di ripopolare l'area di orsi), senza nulla di personale nei confronti di nessuno, quanto piuttosto nei confronti del genere umano tutto, a me notoriamente niente affatto simpatico, mi sono voltuo inventare la scena della sua cattura. Pura fiction, falsa e probabile come tutte le fiction-s. Eccola:
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- Là, Tony! Un orso!
- Visto, Tony! Sta’ pronto!
- Dici che sia lei, Tony?
- Chi cazzo vuoi che sia, Tony? Siamo mica a Disneyland. Certo che è lei. Dai, il fucile...
- Quanto sonnifero ci hai messo?
- Molto, Tony, meglio non rischiare: quella troia non scherza.
- E’ coi suoi piccoli, Tony…
- Già, non li hanno ancora inventati gli asili nido questi bestioni. Ehehe!
- Che facciamo, Tony?
- Cazzo vorresti fare, Tony?! S’è preso quaranta punti di sutura, quello là, che stava solo andando a funghi, poveretto.
- Magari, però, se gli fosse piaciuto anche il sugo di piselli…
- Non dire scemenze Tony! E fai piano, se no ci sgàma, quella… Dai, prendi bene la mira.
- Tony?
- Che c’è, ancora?
- Tu credi che esista un dio degli orsi?
- Che minchiate ti vai inventando Tony? Chi cazzo è questo dio degli orsi?
- Quello che ha creato gli orsi a sua immagine e somiglianza.
- E che ne so, io, di queste stronzate?!? Io qua c’ho un ordinanza che mi dice che devo catturare quella bestia, mica una lettera di San Paolo Apostolo. Dai, preparati.
- E se l’ammazziamo, Tony, con tutto ‘sto sonnifero?
- E se l’ammazziamo, l’ammazziamo, chi se ne frega! Mica possiamo continuare a mandare la gente a funghi con quell’orsa in giro.
- Ma non è casa anche sua, questo posto?
-  Senti, Tony, mi stai facendo girare i coglioni con queste storie. Cazzo ti è preso? Vuoi deciderti a sparare, si o no? Tu spari, lei si addormenta, la prendiamo su, la portiamo dove la dobbiamo portare e ci fanno una bella foto, a tutti e tre. Diventiamo famosi.
- Non so Tony… mi fanno pena quei cuccioli.
- Ma che ti frega dei cuccioli?? Quelli li prendiamo su anche solo con le gabbie, mica dobbiamo sparare pure a quelli. Per quanto, se dipendesse da me…
- Ma resteranno soli al mondo.
- E capirai, fossero i primi a restare soli al mondo… Ma non ci pensi a Tony? Quello che gli è saltata addosso, quella bastarda laggiù…
- Non l’ha fatto per cattiveria.
- Ah no? E tu che ne sai? Per me, con quella faccia lì, quella è più cattiva di Bin Laden.
- Che gliene fregava a lei di Tony, Tony? Lei ha avuto solo paura per i suoi cuccioli.
- Senti, Tony… Io non lo so cosa ti è preso, però so che non possiamo stare qui tutto il giorno a raccontarci le storie. Ora tu mi fai il santo favore di star calmo, prendere un bel respiro, una bella mira, e tirare questa fottuta siringa nel culo di quell’orsa, va bene?!
- E poi, Tony?
- E poi ti invito a pranzo a casa mia, contento?
- Che ha preparato di buono, tua moglie?
- Polenta. Col capriolo.


martedì 9 settembre 2014

Piccoli Morti Crescono (The Fault in Our Stars)

   Piccoli Morti Crescono... A cosa e a chi sarà servito questo piagnucoloso polpettone americano è presto detto: a niente e a nessuno. Passerà via come una finale di “Amici” dalla De Filippi, e nessun piccolo moribondo contemporaneo, americano o altro che sia, ne trarrà alcun insegnamento, perché non potrà rimanergli impresso nulla, nulla che non possa essere presto confuso e smarrito dentro qualcos’altro, un’estemporanea performance di hip-hop, magari, o una cover di Madonna strangolata agonisticamente tra gli strillanti lustrini degli “Studio’s”.
   Malattia, sofferenza, vita, amore, morte... tutta roba seria, tutto scritto piuttosto bene, anche accuratamente nei diversi dettagli e nei molteplici risvolti (vedi, ad esempio, figure dei genitori), ma tutto sceneggiato in maniera disgustosa. E la componente dei dialoghi che pure meriterebbe di essere salvata, affoga in un marasma di banalità visive crudeli più della morte stessa, ad onta di due giovani volonterosi ed inefficaci come Shailene Woodley e Ansel Elgort cui è deputato il compito di inscenarla (per non dire dei tutt’altro che irresistibili camei della sempre dinoccolata Laura Dern e del sorprendentemente (in)colpevole Wiilelm Defoe nel ruolo di un Van Helsing al contrario, che si fa seccare dal vampiro...). 

   Probabilmente (me lo auguro...) l’opera letteraria da cui questo “The Fault In Our Stars” è tratto ha un taglio diverso rispetto a questo noiosissimo piagnisteo diretto da Josh Boone. Nel dubbio e nell’ignoranza, lasciatemi consigliare un efficace antidoto per questo bocconcino avvelenato che avete appena visto (o che, vi auguro, non vedrete mai): Gus per Gus (Gus è il nome del protagonista maschile di questo film), suggerisco la (re)visione di “Restless” (“L’Amore che Resta” in italiano), un film del 2011 di Gus Van Sant (ma guarda tu... la locandina... sembrano uguali...)
   
   Piccoli Morti Amen.

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lunedì 1 settembre 2014

Lettera ad un cane.

Ecco come risponderei a questa lettera ritrovata su facebook grazie alla condivisione di un amico:


     Caro amico a 4 zampe,
     rispondo rivolgendomi direttamente a te, anche se so benissimo che non puoi essere stato tu a scrivere quella lettera: conosco troppo bene la retorica umana, piagnucolante ed ipocrita, per non accorgermi che può essere stato solo un essere umano come me a metterti in bocca quelle parole.  Tuttavia sono certo che saprò esprimermi meglio avendo te come interlocutore, e non mi sarà difficile visto l’affetto che mi sforzo di nutrire (non so con quanto successo) per la tua razza e per gli altri amici animali.
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domenica 31 agosto 2014

Di Fine Estate

   Stamattina, ultimo istante di un’estate capricciosa e ribelle, il mare ha voluto darmi il meglio di sé: bello come quest’anno mai, allegro e cristallino, l’ho accarezzato a lungo mentre  mi sorrideva. L’ho ringraziato per avermi di nuovo risparmiato le sue potenti ire, per avermi consentito ancora di giocare con lui in quell’elemento che, di diritto, non mi appartiene, senza pericolo e senza dolore, al sicuro.
   E’ stata grande la fatica nel momento del congedo: continuavo a guardarlo incapace di andarmene, anche se ci eravamo già detti tutto, spiegato tutto, spiegato perché in quest’anno dispari 2014 non sia riuscito ad  innamorami di lui come in passato, perché a nessun appuntamento rosa di gabbiani al tramonto, quando l’umanità recede e restano soltanto le nostre virtù selvagge, mi sia mai quest’anno presentato, perché e a causa di quali nuvole cattive sia sembrato, per una lunga estate, spegnersi il fuoco della nostra intesa.  Continuava a sorridermi, noncurante di tutti i  perché, e felice. Ed io con lui, felice: lo struggimento per quelle acque salate e dolci che domani una bora mordente renderà torbide e malvage, la benevolenza crudele del tempo che al tempo giusto separa gli amanti quando la stagione del cuore deve finire.
   Rincasando, lucida e pulita, la prima castagna selvatica caduta dal suo ramo sulla terra mi ha occhieggiato mentre le sfrecciavo accanto, pigro e distratto, sul mio motorino. Rimpiango adesso di non essermi fermato a raccoglierla.
Dopo, si alzerà forte un vento…

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giovedì 28 agosto 2014

Postia Pappi Jakoobille


   In uno spoglio ambiente carcerario, appena rischiarati da una luce tagliata proveniente dalla piccola inferriata posta in alto alle spalle di lei, Leila e il direttore della prigione in cui è detenuta sono a colloquio. Con poche, stringate frasi sintetiche, il direttore chiede alla scostante e imbronciata ergastolana cui appena è stata concessa la grazia (richiesta da non si sa chi – “Non da me sicuramente” asserisce categorica Leila) quali siano le sue intenzioni per il nuovo futuro da persona libera che le si prospetta. L’accenno alla possibilità di andare a stare con la sorella non trova risposta se non nella freddezza dello sguardo della donna, ed ecco che allora il direttore le propone un lavoro facile, tranquillo, forse noioso ma sicuro, che Leila, date le sue condizioni, non potrà rifiutare:  assistere un anziano parroco cieco che vive in completa solitudine in qualche remota regione di campagna nella fredda Finlandia.
E’ questo l’incipit che, prima che una malinconica sonata di piano in tonalità minore sui titoli di testa accompagni la ruvida Leila verso la casa parrocchiale di Padre Jaakob, introduce a questa magnifica storia di due solitudini incomplete, fatta di sentimenti profondi, caratteri difficili, di aspirazioni sublimi  e di abissi dell’anima, di verità nascoste e pudori inconfessabili, di anelito alla pace a dispetto (e contro) tutte le infelicità che hanno potuto mettere radici nel corso del tempo.
(Segui a leggere cliccando sotto .... )
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giovedì 21 agosto 2014

A Cippo Legacy.

Sono passati un tot di anni da quando ho montato questo filmetto, e un tot ulteriore da quando furono “girate le scene” che contiene (pregasi notare l’onestà intellettuale e critica insita nel virgolettato...). Erano i primi tempi che mi gingillavo con le nuove apparecchiature elettroniche della nostra modernità, al cui uso e alla cui scoperta mi sono sempre adoperato con pervicace e costante, lieve ritardo rispetto alla media, ed ero pertanto nella fase scimmiesca in cui anche soltanto potersi riguardare dento una fotocameretta da due soldi sgragnata tra i saldi di un mega-store, mi procurava, nonostante l’età fosse già quella di un “Sapiens-sapiens” adulto, un gran divertimento. Quella fase è passata, ed è un peccato, perchè come tutte le cose sciocche ed infantili è destinata in qualche modo ad essere rimpianta, e perché è sempre meno facile, man mano che il tempo passa, poter trovare qualcosa intorno che ti faccia sentire ancora gioiosamente bambino.
Difficilmente la mia mente asimmetrica riuscirà a partorire di nuovo qualche creazione come “A Cippo Legacy”, data anche la pigrizia (tecnologica e non) attualmente in rapida rimonta, unita alle nuova consapevolezza dei propri limiti maturata nel frattempo, la quale mi ha ormai pressochè convinto che non sarò mai né un grande regista, né un grande video maker, e neppure (forse, prima o poi) un grande blogger.
Mi tengo comunque sempre buona qualche via di fuga, tante volte dovesse servire, prima che una compassionevole età pensionistica, o un qualche pernicioso coccolone di natura cardio vascolare mi trascini nel gorgo del dissolvimento, personale o di specie.
Comunque sia, sul mio blog, “A Cippo Legacy” non poteva mancare”.
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venerdì 8 agosto 2014

Con Trazioni


La carne
  mi sussulta da sola.

Niente di strano,
  visto che non mi appartengo,

     che non mi riconosco,

        che non so, nemmeno io
           chi sono.


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lunedì 4 agosto 2014

Al mondo, un posto

Ci fosse
   al mondo,

un posto, adesso
   di poca gente insieme,

di un boccone di cibo e di un bicchiere forte

   di un filo
     di ombra silenziosa, un grillo,

di un vento sussurrato, un miglio

   distante che arrivi
     portando l’odore...

Al mondo, ci fosse
    di terra un po’, ancora

ti porterei.


Mo acsè

Mo acsè, dal vólti, quant a tòurn a chèsa,

la sàira, préima d’infilé la cèva,
a sòun, drin, drin,

  u n’arspònd mai niseun.
E così delle volte, quando torno
a casa,

la sera, prima d’infilare la chiave
suono , drin, drin,

   non risponde mai nessuno.




                                  
                                                  Raffaello Baldini

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venerdì 1 agosto 2014

La sezione "Download"

E possibile scaricare i racconti (per ora è uno solo, chi vivrà, vedrà...) nella sezione "Download" in basso a sinistra. Sono zippati in formato .PDF e .epub per la gioia dei vostri bei ciaffetti con l'e-reader dentro.
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In Morte del Fratello Giovanni - Epilogo


Non so cosa mi resterà di questa esperienza avuta con Giovanni: a calcolarla si fa presto, sono diciotto anni e undici giorni esatti, incastonati in quel settore della vita durante il quale un uomo raggiunge la maturità più piena. Per adesso mi resta un vuoto immenso, uno sgomento diffuso che si accumula come polvere in tutti quegli angoli della casa da cui lentamente vanno scomparendo le cose che gli erano appartenute e che davano la misura della sua presenza, un vuoto che atterrisce, un dolore sordo che si strozza nell’incredulità non ancora rassegnata al non  ritrovarlo dietro la porta che si apre, o in cima alla scala a chiocciola, che mi guarda dall’alto se rientro dall’interno,
oppure acciambellato in poltrona, che alza appena il capo per darmi il bentornato dando un lieve miagolio, del suo farmisi incontro tutte le volte, con la coda alzata; non so cosa sarà non avere una ciotola da pulire e riempire di nuovo, cosa sarà non dover più subire i suoi balzi in cerca di compagnia e conforto sopra di me che dormo, e che mi sottraevano sonno e riposo prezioso, e cosa saprò farmene di questa ritrovata “ricchezza”.  E di tutte le foto di lui, e dei video che giravo e poi montavo musicandoli, qualcuno con fare scherzoso, altri dal tono affettuoso, altri ancora che già all’epoca sapevo sarebbero stati la mia corona di spine in questo momento...

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mercoledì 25 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #13

(Capitoli precedenti)


Dodici ore dopo quella telefonata, durante l’ultima notte di primavera, Giovanni è morto. Lui, nato d’Agosto, pieno Leone fiero che dal cuore dell’estate aveva ricevuto in dono la vita, se n’è andato dalla vita proprio alle sue porte, discreto e gentile, come volesse farsi da parte, lasciando all’imminente solstizio l’opportunità di prodigare ad un suo inconoscibile successore, da qualche parte al mondo, le stesse benedizioni che un giorno lontano nel tempo aveva preparato per lui.
Ha voluto che il giorno del nostro ultimo saluto fosse quello con più luce di tutto l’anno, forse per regalarmi il tempo di piangerlo più a lungo possibile, o perché sapeva che troppo buio tutto insieme avrebbe potuto spaventarmi, o forse perché non era per niente un gatto notturno ed amava piuttosto il sole, al quale si abbandonava volentieri restando disteso per ore nel suo angolo preferito della terrazza. 

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In Morte del Fratello Giovanni #12

(Capitoli precedenti)


Dato il protrarsi degli eventi più lungo del previsto, ero già deciso a rinunciare al mio buon proposito di lasciare che Giovanni finisse spontaneamente i suoi giorni qui in casa, ricorrendo all’aiuto della medicina: mi aspettavo di trovarlo addormentato prima o poi, senza respiro, così mi avevano detto, semplicemente.
Invece, il suo attaccamento alla vita o non so cos’altro, lo ha portato ad una condizione dove non capisco più, non sono più sicuro se il suo miagolio diventato flebile corrisponda solo all’esigenza di bere o a quella di fare pipì, non capisco se invece significhi “Non voglio morire”, oppure “Aiutami a morire”, oppure, con quella semplicità dell’istinto sconosciuta agli umani, soltanto: “Sto morendo”.

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sabato 21 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #11

(Capitoli precedenti)

Il bacio dei gatti, così si dice, corrisponde al gesto con cui strofinano il loro naso sul tuo. Ma non tutti i gatti lo fanno: se Candela, a suo tempo, mi soffocava dei suoi baci sbavanti ai quali non riuscivo a sottrarmi se non allontanandola con perentorietà liquidatoria, Giovanni è invece un micio non-baciatore.
Capace delle affettuosità più disarmanti, delle carinerie anche involontarie più sdolcinate, di comportamenti così vicini all’umanità come il mettersi a miagolare forte, a una cert’ora, per chiamarmi ad andare a letto, l’accoccolarsi sulla mia spalla una volta infilati tutti e due sotto le coperte, i baffi che ti fanno il solletico, le zampine come ad abbracciarti,  tornando a starmi di fronte ogni volta che cambio lato rifiutando l’inaccettabile idea di dormire con me che gli do le spalle...

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In Morte del Fratello Giovanni #10

(Capitoli precedenti)

Questa attesa sta diventando pesante. Giovanni non ha più toccato cibo, è sempre più debole, io non riesco a stare fuori di casa, a meno che non ne sia obbligato, senza sentire il bisogno di ritornarvi per stargli accanto. Ieri pomeriggio, l’ultima giornata di una fase di caldo torrido in questo confusionario inizio di estate, ho avuto la netta convinzione che il momento fosse arrivato: sono rimasto con lui tutto il pomeriggio, tappato in casa per difendermi dall’afa, in compagnia del ronzio del ventilatore e delle molte zanzare, quest’anno particolarmente agguerrite. 

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In Morte del Fratello Giovanni #9

(Capitoli precedenti)


Lo credevo magro qualche giorno fa: non sapevo ancora quanto magro sarebbe stato oggi. Mi chiedo quale sarà il limite, quanto leggero, quanto evanescente, da quanto affranto stupore sarò colto ancora alzando in braccio questa creatura sempre più debole, abbandonata, e che tende sempre di più all’invisibile.

I segni dell’imminenza della fine si moltiplicano: i bisogni, ormai esclusivamente liquidi, all’arrivo dei quali ora si lamenta un pochino, lasciandomi il tempo di accompagnarlo nella cassettina per aiutarlo nell’equilibrio; la riluttanza che dimostra sempre più di frequente a stare a contatto diretto col mio corpo, sintomo di quell’inequivocabile e classico “volersi allontanare” dei gatti morenti, del quale sembra però pentirsi subito dopo, quando, appena essere sceso caracollante dalla mia pancia, mi lancia uno sguardo prolungato e dolcissimo con aria mesta e  mortificata come a volersi scusare;  il muoversi sempre meno, tanto che ormai si aggira solo tra la sala e la cucina, a parte la camera da letto dove lo “costringo” quando me lo porto dietro la notte per dormire, e un po’ il terrazzo che dà sulla strada, da dove ha visto tutto il mondo che ha voluto vedere. 

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giovedì 19 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #8

(Capitoli precedenti)

Mi sono sempre chiesto che cosa giri nella testa dei gatti per tutto il tempo. A cosa pensano? Giovanni è stato tra queste mura e poco oltre per quasi vent’anni: il giardino, al quale attraverso una finestrella dotata di inferriate al piano di sotto ha libero accesso più o meno sempre, due o tre trai giardini dei vicini, il tratto di strada dal quale ha saputo ben difendersi acquistando in velocità e tempismo, tesaurizzando al meglio l’esperienza  dell’incidente avuto da piccolo.

Il suo status di ex-maschio, volutogli da Simona già da quando aveva pochi mesi, gli toglie anche quel quoziente di interesse bestiale per le faccenduole di ordine riproduttivo e/o territoriale che avrebbe mantenuto in qualità di non-ex. Cosa può pensare ancora? Cosa vede, ancora e di nuovo, ogni volta che gira di scatto la testa e la sua attenzione corre verso quel segmento di mondo che ha già viso mille volte? E quando sonnecchia, per ore, accomodato sui cuscini morbidi che gli sistemo d’inverno sul termosifone, o sulla seggiola della cucina dove rimane tutto il tmpo dopo che le mie smancerie notturne da innamorato l’hanno fatto stufare, ed approfitta del mio dormire, onesto e discreto, per andarsene coi suoi pensieri dove gli pare?

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martedì 17 giugno 2014

Only Lovers Left Alive


 Non ricordo di aver mai visto una femmina di vampiro, neppure al cinema, accattivante come Tilda Swinton. Ne ho vaga memoria di un paio di loro in un ottimo film di Abel Ferrara (“The Addiction”), ma sia Annabella Sciorra che Lili Taylor erano lì troppo figacciona la prima e troppo ruvida la seconda per arrivare ad eguagliare la perfetta figura di Eve disegnata qui da Jim Jarmusch.
Decolorata, concretamente rarefatta, nobile d’animo, d’aspetto e di movenze, non me ne voglia l’ottimo suo primordiale comprimario Adam (Tom Hiddleston), la Swinton, con le sue danze laico/concentriche degne della miglior sacerdotessa Sufi/rock, ruba tutta la scena possibile ed immaginabile con un’eleganza ed una classe che arricchisce questo “Only Lovers Left Alive” di un valore aggiunto inestimabile.
Ruba quel tanto di rubabile anche alla deliziosa Mia Wasikowska, che si riconferma talento emergente (emerso? Direi proprio di sì), preziosissima nel ruolo della sorellina terribile, sebbene relegata (purtroppo) nella fase del film meno convincente, poco organica con tutto il resto.
Jarmusch vuole farci discendere tutti dai vampiri: io ci sto. E non solo perché è chiaro che lo status di zombies al quale è ridotto il genere umano del ventunesimo secolo e da considerarsi degenerazione dello splendore dei suoi progenitori (fossero davvero anche solo le scimmie, il discorso non cambierebbe...), ma anche perché, rifacendosi a ciò che è prettamente cinema, lo fa senza risparmiarsi né sprecarsi (esattamente ciò che fanno i suoi ottimi vampiri), costruendo un film di un filone diventato negli ultimi tempi fin troppo ambiguo (dalle boriose saghe di Twilight alle porcherie indicibili dei “Dracula” made-in-Argento) con le tecniche a lui più congeniali e collaudate: si ritrovano, in questo film,  l’atmosfera musicale rarefatta ed in odor di morte di “Dead Man”, l’ispirato slow-mo danzante di Ghost Dog... insomma: tutto il miglior vecchio Jarmusch che si possa desiderare.

 PS = (jumpin’) chi lo guarda in italiano un Dario Argento è!
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sabato 14 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #7

(Capitoli precedenti)

Allora, se non avessi avuto Giovani accanto a piangere con me la scomparsa di Candela, se non avessi potuto trovare rifugio e consolazione nelle carezze che potevo prodigargli, non so come avrei potuto superare da solo tutto quel dolore. Oggi (domani, domani...) non avrò nessuno. Non so perché questa cosa non mi spaventi, forse perché nel frattempo sono cambiato. O forse perché, al contrario di Candela che, pur malata ancor più gravemente di lui non aveva dato una “scadenza” o un preavviso e il suo appetito era rimasto pur sempre buono fino all’ultimo giorno, Giovanni ha scelto di allontanarsi piano, dopo aver annunciato la sua intenzione di andarsene smettendo di alimentarsi.

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venerdì 13 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #6


Ciò da cui nessuno riuscì però a liberarla fu la FIV, un acronimo che sta ad indicare il corrispettivo felino dell’AIDS, malattia diffusa tra i gatti di origine ignota e dal passato burrascoso del quale era facile indovinarne l’esistenza nella vita di Candela per chi aveva potuto assistere personalmente alla sua “tre giorni”. Dal primo manifestarsi dei penosi sintomi della malattia fino al suo irrimediabile epilogo passò circa un anno e mezzo, durante il quale a causa del surplus di attenzioni che dovetti dedicarle (cure sperimentali e palliative, pulizie alle quali non riusciva più a dedicarsi da sola, aiuto nell’alimentazione mirata ed assistita) la gelosia di Giovanni, sino ad allora evidentemente solo diplomaticamente tacitata, prese corpo e consistenza. A guardarlo dall’alto, sembrava diventato un gatto moichano: a partire dalla metà circa della schiena, prima solo lungo un fianco solamente e poi progressivamente in tutti e due, il pelo cominciò prima a diradarsi, poi a sparire quasi del tutto. Esami: nessuna dermatite, feci a posto, sangue pure, parassitosi sotto controllo. Il duo di veterinari si grattò per un po’ il capo con encomiabile modestia, finché non estrasse dallo scaffale un polveroso libro universitario del quale, scorso l’indice e trovata la giusta pagina, mi mostrarono un’appropriata fotografia. “Lo riconosci?”, mi chiesero con altrettanto encomiabile retorica. “E’ lui, è il tuo gatto!”. Diagnosi: stress. “Cure? Una ridicolaggine: oltre al nostro, se ci mettiamo pure a curare lo stress dei gatti, stiamo freschi...”
Quando Candela morì, dopo una crisi alla quale una fortunata coincidenza di lavoro che ritardò il mio rientro a casa mi diede l’opportunità di non dover assistere, e la trovai riversa, agonizzante sul centro perfetto della cornice dello zerbino di cocco come dentro la scena di un film pulp,  in fondo alle scie di sangue e umori di ogni genere che aveva eiettato in quasi tutta la casa da ogni orifizio disponibile, a Giovanni, dopo che aveva potuto annusare e condividere con me l’aria del temporale che coprì tutta la terra in quegli istanti di quel venerdì sei che sembrava essere diventato un venerdì santo, riprese lentamente a ricrescere il nero e lucido pelo lungo i suoi snelli fianchi.
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(segue)
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In Morte del Fratello Giovanni #5

(Episodi precedenti)

Non ho ancora scelto nel giardino il punto esatto dove collocarlo. Vorrei metterlo vicino a Candela, ma il giorno in cui seppellii Candela il giardino era diverso, c’erano altre piante, altre geometrie, e non sono sicuro di riuscire ad orientarmi correttamente.
Candela abitò con noi solo pochi anni, arrivò già adulta annunciandosi con un miagolio nascosto che per diversi giorni mi fece impazzire nel tentativo di individuare questo ennesimo scocciatore che con ogni probabilità veniva con la sola intenzione di  imbrattare il mio portone di cattivi odori sulle tracce di quelli  di Giovanni. Invece un bel giorno decise di consegnarsi spontaneamente, ed una gattona striata di biondo dallo sguardo dolcissimo ed il ventre maternamente smisurato, pronunciata la corretta parola d’ordine con quel miagolio fantasma che avevo  sentito e inutilmente rincorso negli ultimi tempi, mi venne incontro lei per prima mentre stavo uscendo di casa, salendo di gran balzo i primi cinque o sei gradini della scala esterna.

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giovedì 12 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #4

(Episodi precedenti)


Ce l’ho ancora. Rincasando dal lavoro in questi giorni non so mai se mi stia aspettando un buon pasto piuttosto che la penosa fatica di dover preparare qualche angolo del mio confuso giardinetto per seppellirlo. Ma per oggi, ce l’ho ancora. Non poteva che essere lì dove lo avevo lasciato questa mattina, dopo aver serrato bene tutte le finestre affinché il riposo nella sua sordità potesse essere ancora più profondo: sulla “sua” poltrona.
Ricordo benissimo la scena, anni fa, di quando quella poltrona mi fu consegnata. Dovevo rinnovare parzialmente l’arredamento dopo che Simona, andandosene, se n’era portata dietro la sua legittima parte, e l’avevo scelta e ordinata in quattro e quattr’otto in un mobilificio qui della zona. 


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PAPAOUTAI

Il  tema della genitorialità che tratta “Papaoutai” non solo non mi è congeniale, ma nutro nei suoi confronti una sostanziale indifferenza, quando non vera e propria avversione ed antipatia. Il genere musicale stesso non è tra quelli che sono solito frequentare, ma con questa “opera” del signor Stromae, al secolo Paul Van Haver, trentenne musicista belga di passaporto e di madre, ruandese nel bagaglio genetico lasciatogli dai complementari cromosomi paterni, mi è successo quello che di tanto in tanto mi capita senza che me ne accorga, fulmine a ciel sereno.
E così, rimasto colpito mentre ascoltavo alla radio questa geniale, tormentosa lamentazione della quale coglievo solo alcune delle sue sfumature, sono andato ad approfondire in rete, scoprendone, tra le altre cose, il relativo video assolutamente eccezionale: le quattro coppie padre/figlio che compaiono nella clip (più una composta di due ragazze, probabilmente rappresentanti il lato della maternità, trascurato a favore di quello della paternità), danno ciascuna il proprio apporto, integrando ciò che col testo viene raccontato: quella rossa racconta del gioco, quella arancione e quella gialla dell’educazione sana ai buoni principi l’una, della paternità violenta e concepita come “padronanza” prevaricatrice l’altra. Infine la coppia del “l’io narrante”, genialmente confusa con un manichino sorridente raffigurante lo stesso Stromae, che si dibatte tra indefinitezza ed indecisione, senza contorni, omologata alla banalità quotidiana, restando apertamente incompiuta ed interrogativa fino al finale, dove anche il bambino sceglie di ingessarsi nello stesso sorriso freddo del padre.
Geniale.
In rete, ho trovato delle trascrizioni del testo che facevano accapponare la pelle, la migliore che ho trovato, e che mi sembra infine quella corretta è questa che segue. Mi sono poi divertito a dare una mia personale interpretazione del testo, traducendolo a mia volta.
Dites-moi d'où il vient
Enfin je saurais où je vais
Maman dit que lorsqu'on cherche bien
On finit toujours par trouver
Elle dit qu'il n'est jamais très loin
Qu'il part très souvent travailler
Maman dit "travailler c'est bien"
Bien mieux qu'être mal accompagné
Pas vrai ?

Où est ton papa ?
Dis-moi où est ton papa ?
Sans même devoir lui parler
Il sait ce qui ne va pas
Ah sacré papa
Dis-moi où es-tu caché ?
Ça doit, faire au moins mille fois que j'ai
Compté mes doigts

Où t'es, papaoutai ?
Où t'es, papaoutai ?
Où t'es, papaoutai ?
Où t'es, où t'es où, papaoutai ?

Quoi, qu'on y croit ou pas
Y aura bien un jour où on y croira plus
Un jour ou l'autre on sera tous papa
Et d'un jour à l'autre on aura disparu
Serons-nous détestables ?
Serons-nous admirables ?
Des géniteurs ou des génies ?
Dites-nous qui donne naissance aux irresponsables ?
Ah dites-nous qui, tient
Tout le monde sait comment on fait les bébés
Mais personne sait comment on fait des papas
Monsieur Je-sais-tout en aurait hérité, c'est ça
Faut l'sucer d'son pouce ou quoi ?
Dites-nous où c'est caché, ça doit
Faire au moins mille fois qu'on a, bouffé nos doigts.

Où t'es, papaoutai ?

Ditemi da dove viene lui, così alla fine saprò dove finirò io.
 Mamma dice che quando si cerca bene, si finisce sempre per  trovare.
Dice che non è mai troppo lontano, che va fuori spesso per lavoro.
Mamma dice: “E’ meglio lavorare che frequentare cattive compagnie, non trovi?”


Dov’è tuo papà? Dimmi, dov’è tuo papà?
Che non c’è bisogno di dirgli niente: lui sa subito cosa c’è che non va.
Benedetto papà, dove ti sei nascosto?
Che saranno mille volte che mi conto le dita...



Dove sei, papà? Papà, dove sei? 





Ad ogni modo, ci si creda o no, prima o poi ci si crederà meglio:
un giorno o l’altro saremo tutti papà, e da un giorno all’altro saremo spariti tutti.
Saremo detestabili? Ammirabili? Genitori o geni... fammi capire:
ma chi è che mette al mondo gli irresponsabili?
Spiegami un po’ questa cosa: tutti sanno come si fanno i bambini,
ma nessuno sa come si fa un papà.
Signor “so-tutto-io”, è un fatto ereditario succhiarsi il pollice, o cosa?
Dimmi piuttosto dove ti sei nascosto, che saranno mille volte che mi  mangio le dita.
Dove sei, papà? Papà, dove sei?
Dov’è tuo papà? Dimmi, dov’è tuo papà?
Che non c’è bisogno di dirgli niente: lui sa subito cosa c’è che non va.
Benedetto papà, dove ti sei nascosto?
Che saranno mille volte che mi conto le dita...

Dove sei, papà? Papà, dove sei?  




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mercoledì 11 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #3


 Più che attraverso l’odore, Giovanni credo che imparò a conoscermi e ad affezionarmisi attraverso le braccia ed il cuore, giusto una ventina di giorni dopo che si era stabilito qui con me insieme a Simona. Era giugno anche allora, il giugno di diciotto anni fa, Simona era al lavoro ed io in casa a coadiuvare il lavoro degli imbianchini chiamati a rinfrescare il mio appartamento stantio in occasione dell’arrivo dei nuovi occupanti. Uscendo per pedalare in fretta e furia verso un negozio di vernici vicino casa, vidi i due gattini bianconeri (Giovanni ed un suo sosia quasi perfetto) rincorrersi giocosamente davanti al cancello di casa, sul ciglio della strada. Il tempo di fare una decina di metri: un tonfo sordo, una Ypsilon 10 verdina che rallenta, accosta, guarda attonita nello specchietto, riparte. Vedendo uno dei due riverso sull’asfalto con gli occhi sgranati, tornando precipitosamente sui miei passi pregai dio che potesse essere toccato all’altro gatto, ma il collarino rosso che  adornava tintinnante il collo di quello investito spense subito ogni mia speranza. 

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