giovedì 27 marzo 2014

Vi är bäst!

Trinità: Padre e Figlio sono femmina, e hanno tredici anni.  Lo Spirito Santo è femmina pure lui, un po’ più grandicello: all’inizio portava i capelli lunghi, suonava Sylvius Leopold Weiss con la chitarra classica e nessuno se lo filava. Dio è fascista, oltre che confuso, e se esistesse (ma non esiste) andrebbe impiccato, e il Punk, nel 1982, era ancora piuttosto vivo...
Né Padre, né Figlio hanno mai suonato niente in vita loro, ma gli ronza talmente tanto in testa una canzone che tratti così male lo sport almeno tanto quanto lo sport tratta male loro, che tagliano i capelli allo Spirito Santo, se lo portano dietro, e mettono su una band. Che non è, e non potrebbe ovviamente mai essere, una “girl-band”.
Trinità più due fa cinque: il Pentacolo: bastano due maschi in più che tutto vacilla, e litiga, che se non fosse per lo Spirito Santo (che è dispari, e da dispari capisce le cose meglio degli altri, e le sa sistemare), Satana c’avrebbe da sguazzare facile pure in Svezia, dove non è lecito chiedere la carità, neanche per gioco, o per procurarsi una chitarra elettrica, che una chitarra elettrica, a una band, serve sempre. D’altra parte, se a niente servono i genitori, la famiglia, la scuola non ne parliamo neppure... l’urgenza di trovare qualcosa di utile da fare non può che farsi impellente, a prescindere dal successo, che in fondo non conta poi nemmeno tanto.

Con questi presupposti, Lukas Moodysson, in questo spiritoso, serio, giocosamente disturbante “We Are The Best”,  riprende in mano i suoi prediletti adolescenti, già egregiamente trattati in film come il bellissimo “Lilya4ever”, e in quello d’esordio “Fucking Åmål”.  Diversi, disadattati, autoadattanti e modellati su nient’altro che loro stessi, anche Bobo, Klara ed Edwig, come i loro predecessori nella filmografia del 45enne regista di Malmö, attraverso la sua mano nervosa, inquieta, scattante, come se non fosse mai soddisfatta di ciò che riprende, procedono attraverso il vuoto che le circonda loro malgrado e immeritatamente, salde su pochi, ma significativi punti certi, tipo il ketch-up, o il “Devi aiutare i poveri” che Klara dice perentoria alla commessa del Fast Food che non vuole dar loro, squattrinate, nemmeno un po’ di patatine fritte, verso un risultato che non arriverà forse mai, ma che le troverà comunque soddisfatte e felici, perché quel che conta, è che loro “Sono le migliori”. E su questo non c’è dubbio.
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domenica 23 marzo 2014

Ida

Sono due Agate, Agata Kulesza e Agata Trzebuchowska, le due pietre preziose incastonate in questo splendido “Ida”, bianco e nero polacco in quattro terzi (o quasi) che, chi ha una certa età, si stringe il cuore.
Silenzioso e lieve, come i fiumi addormentati del Gennaio cantato da Guccini, un ligneo Cristo trova dedita adorazione nell’incipit: Ida e le novizie consorelle lo posano e lo pregano nell’innevato giardino di un convento, prima che una zuppa calda le ristori.
Ma Ida ha un passato da seguire: sebbene affatto incline ai passi retroversi, anzi curiosa e pronta, e timida, e discreta, Ida ha una zia di nome Wanda, come il pesce, che chiama “cappuccio” il velo delle suore, ma non di tutte, solo quello della sua bella Ida. E bussa forte alle porte, la zia Wanda, cerca giustizia lei, giudice che manda a morte, che beve forte e poi guida l’automobile, e balla, e indossa perle, e a agli uomini, la zia, non nega le sue grazie prossime alla disperazione.

Interfacciate come meglio non si potrebbe, dentro inquadrature  tutte fisse ed asimmetriche (eccetto l’ultima, che palpita di passi frettolosi al futuribile ritorno) le due Agate si danno reciprocamente senso, non importa quale sia stata la causa o quale sarà la conseguenza, non c’è nessun bene e nessun male, nessuna passione, morte, resurrezione, nessun Cristo che vinca se non quello inconsistente e ligneo che guadagna i passi frettolosi della bella Ida che ritorna, dopo che, sciolti i capelli al mondo, aveva chiesto al mondo “E poi?” senza trovar risposta.

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venerdì 21 marzo 2014

Il giardino

Non ho, giardino, tempo per curarti
né braccia forti, o pollici a colori.
Così, vicino selvaggio ora mi guardi,
occhi di margherite. Muti odori


a me parlan di salvia, e tuberose,
menta asservita all’edera ribelle.
Belle son pure l’erbe appiccicose,
i fili morti, Natali andati, stelle.


Non sei giardino a me, sei casa
all’universo piccolo, a inguardate
piccole forme vive ed alla bava
dell’esistenze che saranno alate,


al ragno, la formica, il millepiedi,
all’argento che veloce fugge via,
al saltare improvviso che non vedi,
saltato, dove fosse, dove sia,


al riccio piovuto da quel campo,
che attraversato il mondo in te ritrova,
giardino, in te timido scampo
ed il sollievo di una casa nuova.

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mercoledì 19 marzo 2014

Le Temps de l'Aventure

Ad un paio di raffinati Larghi, tratti dai concerti per violino e orchestra vivaldiani , il trentaseienne regista parigino Jérôme Bonnell affida il compito di accompagnare l’altrettanto delicata, romanticissima e profonda storia, ricavata dal romanzo di Jacques Martin “Alix, l’Intrepide”, di Alix (la solita, perfetta Emanuelle Devos) e Doug (Gabriel Byrne).
Apparsole nel primo giorno d’estate, seminascosto dal gioco prospettico dei sedili di un treno semivuoto che li sta portando verso Parigi, Doug (e la sua mano, monda di anelli nuziali...), professore inglese di letteratura in viaggio per portare l’estremo saluto ad un’ex-collega (probabilmente suo vecchio oggetto d’inesaudito amore) attira con repentina immediatezza l’attenzione della quarantenne attrice. Avvicinata casualmente dallo sconosciuto ombroso e dall’espressione triste per ottenere un’indicazione su dove si trovi la chiesa verso cui è diretto, subito Alix si vede sottrarre l’attenzione dell’uomo da un altro passeggero che, vista l’indecisione di lei nel rispondere alla domanda, si presta ad aiutare il forestiero visitatore separando i due, così come accadrà successivamente al funerale, dove di nuovo tra Alix e Doug alcuni occasionali intrusi cercheranno involontariamente di non farli incontrare. Ma l’intraprendenza e l’audacia di Alix la porteranno  ostinatamente fin dentro la sua camera d’albergo, dove tra l’uomo e la donna nascerà quell’intesa che né col fantasmatico compagno di lei (un uomo di cui conosceremo soltanto la voce e l’assenza), né con i quattro figli già grandi che Doug aveva “maturato” in quella vita che racconterà appena e che già sembra precedente a questa, i due avevano mai conosciuto.
Nello spazio di poche ore appena, dove all’inizio la fretta degli orologi, dei treni che partono, del bancomat che improvviso serve ma non funziona, dei telefoni che non rispondono, una fretta che insegue Alix fin dentro il personaggio che per alcuni minuti (e per due volte) interpreta durante una fugace audizione parigina, che la insegue nervosa con la camera in movimento su e giù per la metropolitana,  il regista riesce in un secondo tempo e con maestria, una volta “consumato” l’incontro amoroso dei due protagonisti, a dilatare il tempo, rendendo con fluire sorprendentemente calmo una serie di eventi che si susseguono numerosi (l’incontro/scontro con la sorella, le feste nei bistrot) benché compressi in pochissime ore, fino ad un finale splendidamente aperto, laddove il treno che inghiotte Alix sotto lo sguardo desolato di Doug sembrerebbe invece chiudere ogni spazio e ogni possibilità.
Romantico all’ennesima potenza (i “duri” si astengano dal cercarlo...), non per niente premiato al Carbourg Romantic Film Festival, nonché in corsa nel più noto e prestigioso Festival di Tribeca, questo “Le Temps de l’Aventure” si propone delicato ed intenso, ricco di sentimenti e di poesia, leggero e struggente insieme, grazie anche ad un ottimo soggetto, ad una regista abile soprattutto nell’alternanza sempre significante dei punti di vista delle inquadrature, ma soprattutto a due attori di non consueto calibro come il freddo Byrne e ancor più la morbida Devos, dotata di un fascino e di una intensità tutti particolari e difficilmente ritrovabili insieme in altre attrici, splendida in questa occasione ancor più delle  altre che mi sia dato di ricordare.

Molto bello.
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martedì 18 marzo 2014

Il Colore Nero - 12 Years A Slave

I fantasmi non muoiono mai, per loro stessa definizione. Se a noi europei tocca e toccherà ancora non si sa per quanto confrontarci con gli spettri del novecento, del nazismo, dell’antisemitismo, delle crudeltà assurde al superamento delle quali tentano di fondarsi (ancora e non si sa per quanto, con risultati tutto sommato mediocri) i nostri attuali princìpi e schemi di convivenza (lontanissimi dall’essere perfetti, naturalmente...), oltre oceano, ad Hollywood, ci si prodiga ancora nello spalmarsi balsamici unguenti sulle mostruose, ancora non evidentemente cicatrizzate ferite ora dello sterminio dei nativi “indiani”, ora dello schiavismo che sarà poi più tardi, come nel caso di questo Oscar 2014 “12 Years a Slave”.
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lunedì 17 marzo 2014

Volcano

Quando niente si muove. E invece dentro è tutto un rimestare, ribollire, sfiati, spruzzi, un magma agitato e inquieto. Quando il segreto non compare, che poi lo scordi quasi, lo confondi, lo perdi, sentendolo gemere, affogato, che sta fluendo via nella corrente delle cose inutili e pesanti, nei rivoli carsici dei ritmi sonno/veglia che nemmeno ti ricordi perché ti svegli, a cosa, o di che cosa ti devi riposare, sebbene esausto, morto di fatica, a ungere di balsami i rossori delle sinapsi scorticate che già la lava ha eroso. Quando il riposo atterra nella mattina pigra, e il tuo segreto dorme ancora, dove, tu non sai, e già la lingua ustionata dal primo caffè bruciante è subito promessa di un rimandare, dell’eruzione muta che ancora deve attendere, sospesa. 
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martedì 11 marzo 2014

Quando MinnaMoro / 01: Carey Mulligan

La prima volta che l’ho vista, ho subito gridato “E’ nata una stella”:  quando nel film “An Education”, il primo in cui recita da protagonista (un film leggero e frizzante del 2009 ambientato nella Londra dei primi anni '60 diretto dalla regista danese Lone Sherfig), Jenny (il suo personaggio) se ne esce fuori all’improvviso con in capelli raccolti in alto e un sorriso tutto bollicine e joie-de-vivre né più né meno che come da Tiffany, da qualche parte lo spirito di Audrey Hepburn si è sentito alitare... In molti lo notarono, molti altri considerarono esagerata quanto insensata questa associazione, fatto sta che la londinese Carey Mulligan fu subito in lizza per l’Oscar come migliore attrice protagonista, salvo vedersi superare poi dalla già abbondantemente prescelta e illimitatamente meno meritevole Sandra Bullock, tanto che in un divertentissimo incipit di una puntata di  “The Late Late Show”, programma dell’americana CBS che fa da contraltare al più noto  “The Late Show” di David Letterman, il suo conduttore Craig Fergusson la prende amabilmente in giro per questa suo mezzo passo falso (“Fermi tutti!” dice al pubblico che accenna all’applauso: “Non l’ha vinto, l’Oscar: se l’avesse vinto, a quest’ora sarebbe sulla NBC”). - Continua a leggere cliccando sotto

lunedì 10 marzo 2014

Pinocchio

Sono nell’angolo dove mi hai messo
  in un civico quaranta-e-passa a caso, il naso,
    Pinocchio inanimato, abbandonato,
      uno sbaffo di nero per sorriso.



Ora però mi muovo, amica mai,
  a te è restato il burattino, io il bambino
    per le mani son ora da prendere, e giocare.
    -  Il tuo midollo, osso buco, mai mi è andato. -





Son stato
  per amore nelle ore impossibili che chiami spaventose.
    Tra le pagine ventose hai letto un orco,
      però tenevi in mano la favola sbagliata
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domenica 9 marzo 2014

Marriage

Un uomo anziano, che presto come tutti sarà chiamato, vaga con distaccata, falsa innocenza ipocrita tra le tombe di coloro che conosceva, ripassa in silenzio gli anni, le circostanze, legge e rilegge le date, per assimilarle ancora, le riordina e le distende bene, come fossero bianche camicie nel bagaglio della vita. Ma pare non voglia capire quale sia il “suo tempo”, cosa sia “il tempo”, sorride, colpevolmente ingenuo,  sembra che la morte non lo riguardi, guarda le cose come se non queste non  fossero “lui”. Lascia qualche piccolo fiore sulla tomba dei genitori, mentre il luogo dove sono le ceneri di sua moglie, persa da poco, è in un’altra zona del cimitero. Raggiungere questo luogo è un cammino di pochi passi, ma diventa lungo, impegnativo, come un viaggio. Solo davanti a questa morte, una morte vicina, l’epilogo di una vita che è durata insieme, diversa dal morire comune, l’uomo pare intuire qualcosa... I fiori lasciati qui, e lo sguardo che posa sull’immagine della donna, cercano finalmente un contatto, un motivo, una sostanza... Sono un punto interrogativo muto, un passo avanti verso il capire...
“Marriage” è l’unione stabilita, promessa  e futura dell’uomo con se stesso e il suo destino.


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Inside Llewin Davis

Dopo la visione dell’ultimo (al solito: bellissimo) film della Ditta Coen, mi è venuto subito da riflettere su come mai la colonna sonora (una fantastica miscellanea di classici folk e altri amenicoli, alcuni arrangiati fra l’altro, da Marcus Mumford, marito della splendida Carey Mulligan, qui – purtroppo per i suoi fans – relegata in un ruolo troppo piccolo) sia perennemente attraversata dalla parola “addio”. E’ tutto un partire, andarsene, salutarsi, piangere lontananze, “Addio! Fareweel!”, e non a caso anche l’ultimissima battuta pronunciata da Llewyn Davis prima dei titoli di coda è proprio “Au-revoir”. Come Ulisse, lo splendido gatto rosso (si dovrebbe usare il plurale “gatti”) che il protagonista insegue costantemente  (o ne è inseguito?), anche il personaggio interpretato dall’ex- Blinking Underdogs Oscar Isaac compie il suo viaggio iniziatico spinto dal dolore (sparato, nello spazio come nella spiritosa “Please, Mr. Kennedy”) per la perdita dell’ex partner di palcoscenico Mike, morto suicida, a ricercare una sua nuova collocazione artistica ed esistenziale, in lotta perenne con tutto e tutti a causa della sua intransigenza e cocciutaggine. E come l’Ulisse mitologico, la fine del suo viaggio e delle sue peregrinazioni non potrà che essere Itaca, un testa-coda che, pur non essendo certo una novità nel panorama della narrazione  cinematografica, è senz’altro in questo film particolarmente apprezzabile per merito degli stessi registi, al solito intelligentissimi e raffinati nel cogliere e riportare allo spettatore i vari steps attraverso i quali la sceneggiatura e la caratterizzazione dei  personaggi si sviluppano. Di cameo in cameo (uno in particolare per F. Murray Abraham), per raccontare l’avventura di Llewin Davis i Coen arrivano fino a concedersi (solo i registi di questo spessore possono permetterselo) digressioni velate di Magia Nera  e Macumbe (a proposito di camei: un altro è quello di Mr. Turner, gigante misterioso ed epilettico col suo strambo vassallo, riservato al loro fido amico John Goodman, l’incontro col quale marca una svolta decisiva nella vicenda).
Ma, con rispetto parlando per tutto l’ottimo cast del film, gatti e folk singers compresi, la vera protagonista del film è la musica, per fortuna almeno questa sottotitolata nelle sale all’interno della sempre ignobile e provinciale abitudine tutta italiota di doppiare i film.
Come sempre, se la firma è Coen: imperdibile.
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Brothers


Disclaimer

Questo piccolo blog nasce dalla pioggia, così come ogni cosa che sia oggi conosciuta e presente. Da un uragano, nella fattispecie: fragoroso, imprevedibile, violento, non cercato, non voluto, ma neanche subìto, acqua... Questo blog ha una madre: è stato nella Terra prima di dividersi in due, è nato gridando, morendosi con dolore, pesante dei suoi pochi grammi lanciati verso il cielo. Non ha un padre, invece. E questa è la sua primaria asimmetria.
Questo piccolo blog ha e non ha, non chiede e si chiede, riposa a fatica, guarda con gli occhi chiusi e vede, non vede, ragiona senza pensare, capisce senza ragione, a tratti nuota nell’erba come dentro un’illusione profetica e un po’ bugiarda. E fa tutto questo non curandosi della misura, senza cercare equilibri, armonie, riflessi fedeli, pesi o contrappesi. E’ ingenuo, primitivo, timido, fragile e quasi immobile come il germoglio sgraziato del fagiolo.

Questo piccolo spazio non ha molta cultura, non è cultura. Non è argomenti, non serve, non insegna: solo respira. Questo piccolo spazio ha quel che gli serve: cercare. Non ha quel che gli basta: cercare ancora, per questo è qui. Ama qualcosa (il cinema, per esempio, quel che può di poesia, forse la musica, gli altri animali), ama di più se può, ama-non-ama a seconda di non sa bene cosa, che non è poi così diverso il non amare dall’amare, se anche questo viene dal cuore. E sempre che le due cose non siano in simmetria, perché ogni simmetria blocca il processo dinamico, ferma il movimento, arresta l’energia, termina, completa. 
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