mercoledì 25 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #13

(Capitoli precedenti)


Dodici ore dopo quella telefonata, durante l’ultima notte di primavera, Giovanni è morto. Lui, nato d’Agosto, pieno Leone fiero che dal cuore dell’estate aveva ricevuto in dono la vita, se n’è andato dalla vita proprio alle sue porte, discreto e gentile, come volesse farsi da parte, lasciando all’imminente solstizio l’opportunità di prodigare ad un suo inconoscibile successore, da qualche parte al mondo, le stesse benedizioni che un giorno lontano nel tempo aveva preparato per lui.
Ha voluto che il giorno del nostro ultimo saluto fosse quello con più luce di tutto l’anno, forse per regalarmi il tempo di piangerlo più a lungo possibile, o perché sapeva che troppo buio tutto insieme avrebbe potuto spaventarmi, o forse perché non era per niente un gatto notturno ed amava piuttosto il sole, al quale si abbandonava volentieri restando disteso per ore nel suo angolo preferito della terrazza. 

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In Morte del Fratello Giovanni #12

(Capitoli precedenti)


Dato il protrarsi degli eventi più lungo del previsto, ero già deciso a rinunciare al mio buon proposito di lasciare che Giovanni finisse spontaneamente i suoi giorni qui in casa, ricorrendo all’aiuto della medicina: mi aspettavo di trovarlo addormentato prima o poi, senza respiro, così mi avevano detto, semplicemente.
Invece, il suo attaccamento alla vita o non so cos’altro, lo ha portato ad una condizione dove non capisco più, non sono più sicuro se il suo miagolio diventato flebile corrisponda solo all’esigenza di bere o a quella di fare pipì, non capisco se invece significhi “Non voglio morire”, oppure “Aiutami a morire”, oppure, con quella semplicità dell’istinto sconosciuta agli umani, soltanto: “Sto morendo”.

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sabato 21 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #11

(Capitoli precedenti)

Il bacio dei gatti, così si dice, corrisponde al gesto con cui strofinano il loro naso sul tuo. Ma non tutti i gatti lo fanno: se Candela, a suo tempo, mi soffocava dei suoi baci sbavanti ai quali non riuscivo a sottrarmi se non allontanandola con perentorietà liquidatoria, Giovanni è invece un micio non-baciatore.
Capace delle affettuosità più disarmanti, delle carinerie anche involontarie più sdolcinate, di comportamenti così vicini all’umanità come il mettersi a miagolare forte, a una cert’ora, per chiamarmi ad andare a letto, l’accoccolarsi sulla mia spalla una volta infilati tutti e due sotto le coperte, i baffi che ti fanno il solletico, le zampine come ad abbracciarti,  tornando a starmi di fronte ogni volta che cambio lato rifiutando l’inaccettabile idea di dormire con me che gli do le spalle...

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In Morte del Fratello Giovanni #10

(Capitoli precedenti)

Questa attesa sta diventando pesante. Giovanni non ha più toccato cibo, è sempre più debole, io non riesco a stare fuori di casa, a meno che non ne sia obbligato, senza sentire il bisogno di ritornarvi per stargli accanto. Ieri pomeriggio, l’ultima giornata di una fase di caldo torrido in questo confusionario inizio di estate, ho avuto la netta convinzione che il momento fosse arrivato: sono rimasto con lui tutto il pomeriggio, tappato in casa per difendermi dall’afa, in compagnia del ronzio del ventilatore e delle molte zanzare, quest’anno particolarmente agguerrite. 

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In Morte del Fratello Giovanni #9

(Capitoli precedenti)


Lo credevo magro qualche giorno fa: non sapevo ancora quanto magro sarebbe stato oggi. Mi chiedo quale sarà il limite, quanto leggero, quanto evanescente, da quanto affranto stupore sarò colto ancora alzando in braccio questa creatura sempre più debole, abbandonata, e che tende sempre di più all’invisibile.

I segni dell’imminenza della fine si moltiplicano: i bisogni, ormai esclusivamente liquidi, all’arrivo dei quali ora si lamenta un pochino, lasciandomi il tempo di accompagnarlo nella cassettina per aiutarlo nell’equilibrio; la riluttanza che dimostra sempre più di frequente a stare a contatto diretto col mio corpo, sintomo di quell’inequivocabile e classico “volersi allontanare” dei gatti morenti, del quale sembra però pentirsi subito dopo, quando, appena essere sceso caracollante dalla mia pancia, mi lancia uno sguardo prolungato e dolcissimo con aria mesta e  mortificata come a volersi scusare;  il muoversi sempre meno, tanto che ormai si aggira solo tra la sala e la cucina, a parte la camera da letto dove lo “costringo” quando me lo porto dietro la notte per dormire, e un po’ il terrazzo che dà sulla strada, da dove ha visto tutto il mondo che ha voluto vedere. 

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giovedì 19 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #8

(Capitoli precedenti)

Mi sono sempre chiesto che cosa giri nella testa dei gatti per tutto il tempo. A cosa pensano? Giovanni è stato tra queste mura e poco oltre per quasi vent’anni: il giardino, al quale attraverso una finestrella dotata di inferriate al piano di sotto ha libero accesso più o meno sempre, due o tre trai giardini dei vicini, il tratto di strada dal quale ha saputo ben difendersi acquistando in velocità e tempismo, tesaurizzando al meglio l’esperienza  dell’incidente avuto da piccolo.

Il suo status di ex-maschio, volutogli da Simona già da quando aveva pochi mesi, gli toglie anche quel quoziente di interesse bestiale per le faccenduole di ordine riproduttivo e/o territoriale che avrebbe mantenuto in qualità di non-ex. Cosa può pensare ancora? Cosa vede, ancora e di nuovo, ogni volta che gira di scatto la testa e la sua attenzione corre verso quel segmento di mondo che ha già viso mille volte? E quando sonnecchia, per ore, accomodato sui cuscini morbidi che gli sistemo d’inverno sul termosifone, o sulla seggiola della cucina dove rimane tutto il tmpo dopo che le mie smancerie notturne da innamorato l’hanno fatto stufare, ed approfitta del mio dormire, onesto e discreto, per andarsene coi suoi pensieri dove gli pare?

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martedì 17 giugno 2014

Only Lovers Left Alive


 Non ricordo di aver mai visto una femmina di vampiro, neppure al cinema, accattivante come Tilda Swinton. Ne ho vaga memoria di un paio di loro in un ottimo film di Abel Ferrara (“The Addiction”), ma sia Annabella Sciorra che Lili Taylor erano lì troppo figacciona la prima e troppo ruvida la seconda per arrivare ad eguagliare la perfetta figura di Eve disegnata qui da Jim Jarmusch.
Decolorata, concretamente rarefatta, nobile d’animo, d’aspetto e di movenze, non me ne voglia l’ottimo suo primordiale comprimario Adam (Tom Hiddleston), la Swinton, con le sue danze laico/concentriche degne della miglior sacerdotessa Sufi/rock, ruba tutta la scena possibile ed immaginabile con un’eleganza ed una classe che arricchisce questo “Only Lovers Left Alive” di un valore aggiunto inestimabile.
Ruba quel tanto di rubabile anche alla deliziosa Mia Wasikowska, che si riconferma talento emergente (emerso? Direi proprio di sì), preziosissima nel ruolo della sorellina terribile, sebbene relegata (purtroppo) nella fase del film meno convincente, poco organica con tutto il resto.
Jarmusch vuole farci discendere tutti dai vampiri: io ci sto. E non solo perché è chiaro che lo status di zombies al quale è ridotto il genere umano del ventunesimo secolo e da considerarsi degenerazione dello splendore dei suoi progenitori (fossero davvero anche solo le scimmie, il discorso non cambierebbe...), ma anche perché, rifacendosi a ciò che è prettamente cinema, lo fa senza risparmiarsi né sprecarsi (esattamente ciò che fanno i suoi ottimi vampiri), costruendo un film di un filone diventato negli ultimi tempi fin troppo ambiguo (dalle boriose saghe di Twilight alle porcherie indicibili dei “Dracula” made-in-Argento) con le tecniche a lui più congeniali e collaudate: si ritrovano, in questo film,  l’atmosfera musicale rarefatta ed in odor di morte di “Dead Man”, l’ispirato slow-mo danzante di Ghost Dog... insomma: tutto il miglior vecchio Jarmusch che si possa desiderare.

 PS = (jumpin’) chi lo guarda in italiano un Dario Argento è!
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sabato 14 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #7

(Capitoli precedenti)

Allora, se non avessi avuto Giovani accanto a piangere con me la scomparsa di Candela, se non avessi potuto trovare rifugio e consolazione nelle carezze che potevo prodigargli, non so come avrei potuto superare da solo tutto quel dolore. Oggi (domani, domani...) non avrò nessuno. Non so perché questa cosa non mi spaventi, forse perché nel frattempo sono cambiato. O forse perché, al contrario di Candela che, pur malata ancor più gravemente di lui non aveva dato una “scadenza” o un preavviso e il suo appetito era rimasto pur sempre buono fino all’ultimo giorno, Giovanni ha scelto di allontanarsi piano, dopo aver annunciato la sua intenzione di andarsene smettendo di alimentarsi.

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venerdì 13 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #6


Ciò da cui nessuno riuscì però a liberarla fu la FIV, un acronimo che sta ad indicare il corrispettivo felino dell’AIDS, malattia diffusa tra i gatti di origine ignota e dal passato burrascoso del quale era facile indovinarne l’esistenza nella vita di Candela per chi aveva potuto assistere personalmente alla sua “tre giorni”. Dal primo manifestarsi dei penosi sintomi della malattia fino al suo irrimediabile epilogo passò circa un anno e mezzo, durante il quale a causa del surplus di attenzioni che dovetti dedicarle (cure sperimentali e palliative, pulizie alle quali non riusciva più a dedicarsi da sola, aiuto nell’alimentazione mirata ed assistita) la gelosia di Giovanni, sino ad allora evidentemente solo diplomaticamente tacitata, prese corpo e consistenza. A guardarlo dall’alto, sembrava diventato un gatto moichano: a partire dalla metà circa della schiena, prima solo lungo un fianco solamente e poi progressivamente in tutti e due, il pelo cominciò prima a diradarsi, poi a sparire quasi del tutto. Esami: nessuna dermatite, feci a posto, sangue pure, parassitosi sotto controllo. Il duo di veterinari si grattò per un po’ il capo con encomiabile modestia, finché non estrasse dallo scaffale un polveroso libro universitario del quale, scorso l’indice e trovata la giusta pagina, mi mostrarono un’appropriata fotografia. “Lo riconosci?”, mi chiesero con altrettanto encomiabile retorica. “E’ lui, è il tuo gatto!”. Diagnosi: stress. “Cure? Una ridicolaggine: oltre al nostro, se ci mettiamo pure a curare lo stress dei gatti, stiamo freschi...”
Quando Candela morì, dopo una crisi alla quale una fortunata coincidenza di lavoro che ritardò il mio rientro a casa mi diede l’opportunità di non dover assistere, e la trovai riversa, agonizzante sul centro perfetto della cornice dello zerbino di cocco come dentro la scena di un film pulp,  in fondo alle scie di sangue e umori di ogni genere che aveva eiettato in quasi tutta la casa da ogni orifizio disponibile, a Giovanni, dopo che aveva potuto annusare e condividere con me l’aria del temporale che coprì tutta la terra in quegli istanti di quel venerdì sei che sembrava essere diventato un venerdì santo, riprese lentamente a ricrescere il nero e lucido pelo lungo i suoi snelli fianchi.
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In Morte del Fratello Giovanni #5

(Episodi precedenti)

Non ho ancora scelto nel giardino il punto esatto dove collocarlo. Vorrei metterlo vicino a Candela, ma il giorno in cui seppellii Candela il giardino era diverso, c’erano altre piante, altre geometrie, e non sono sicuro di riuscire ad orientarmi correttamente.
Candela abitò con noi solo pochi anni, arrivò già adulta annunciandosi con un miagolio nascosto che per diversi giorni mi fece impazzire nel tentativo di individuare questo ennesimo scocciatore che con ogni probabilità veniva con la sola intenzione di  imbrattare il mio portone di cattivi odori sulle tracce di quelli  di Giovanni. Invece un bel giorno decise di consegnarsi spontaneamente, ed una gattona striata di biondo dallo sguardo dolcissimo ed il ventre maternamente smisurato, pronunciata la corretta parola d’ordine con quel miagolio fantasma che avevo  sentito e inutilmente rincorso negli ultimi tempi, mi venne incontro lei per prima mentre stavo uscendo di casa, salendo di gran balzo i primi cinque o sei gradini della scala esterna.

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giovedì 12 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #4

(Episodi precedenti)


Ce l’ho ancora. Rincasando dal lavoro in questi giorni non so mai se mi stia aspettando un buon pasto piuttosto che la penosa fatica di dover preparare qualche angolo del mio confuso giardinetto per seppellirlo. Ma per oggi, ce l’ho ancora. Non poteva che essere lì dove lo avevo lasciato questa mattina, dopo aver serrato bene tutte le finestre affinché il riposo nella sua sordità potesse essere ancora più profondo: sulla “sua” poltrona.
Ricordo benissimo la scena, anni fa, di quando quella poltrona mi fu consegnata. Dovevo rinnovare parzialmente l’arredamento dopo che Simona, andandosene, se n’era portata dietro la sua legittima parte, e l’avevo scelta e ordinata in quattro e quattr’otto in un mobilificio qui della zona. 


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PAPAOUTAI

Il  tema della genitorialità che tratta “Papaoutai” non solo non mi è congeniale, ma nutro nei suoi confronti una sostanziale indifferenza, quando non vera e propria avversione ed antipatia. Il genere musicale stesso non è tra quelli che sono solito frequentare, ma con questa “opera” del signor Stromae, al secolo Paul Van Haver, trentenne musicista belga di passaporto e di madre, ruandese nel bagaglio genetico lasciatogli dai complementari cromosomi paterni, mi è successo quello che di tanto in tanto mi capita senza che me ne accorga, fulmine a ciel sereno.
E così, rimasto colpito mentre ascoltavo alla radio questa geniale, tormentosa lamentazione della quale coglievo solo alcune delle sue sfumature, sono andato ad approfondire in rete, scoprendone, tra le altre cose, il relativo video assolutamente eccezionale: le quattro coppie padre/figlio che compaiono nella clip (più una composta di due ragazze, probabilmente rappresentanti il lato della maternità, trascurato a favore di quello della paternità), danno ciascuna il proprio apporto, integrando ciò che col testo viene raccontato: quella rossa racconta del gioco, quella arancione e quella gialla dell’educazione sana ai buoni principi l’una, della paternità violenta e concepita come “padronanza” prevaricatrice l’altra. Infine la coppia del “l’io narrante”, genialmente confusa con un manichino sorridente raffigurante lo stesso Stromae, che si dibatte tra indefinitezza ed indecisione, senza contorni, omologata alla banalità quotidiana, restando apertamente incompiuta ed interrogativa fino al finale, dove anche il bambino sceglie di ingessarsi nello stesso sorriso freddo del padre.
Geniale.
In rete, ho trovato delle trascrizioni del testo che facevano accapponare la pelle, la migliore che ho trovato, e che mi sembra infine quella corretta è questa che segue. Mi sono poi divertito a dare una mia personale interpretazione del testo, traducendolo a mia volta.
Dites-moi d'où il vient
Enfin je saurais où je vais
Maman dit que lorsqu'on cherche bien
On finit toujours par trouver
Elle dit qu'il n'est jamais très loin
Qu'il part très souvent travailler
Maman dit "travailler c'est bien"
Bien mieux qu'être mal accompagné
Pas vrai ?

Où est ton papa ?
Dis-moi où est ton papa ?
Sans même devoir lui parler
Il sait ce qui ne va pas
Ah sacré papa
Dis-moi où es-tu caché ?
Ça doit, faire au moins mille fois que j'ai
Compté mes doigts

Où t'es, papaoutai ?
Où t'es, papaoutai ?
Où t'es, papaoutai ?
Où t'es, où t'es où, papaoutai ?

Quoi, qu'on y croit ou pas
Y aura bien un jour où on y croira plus
Un jour ou l'autre on sera tous papa
Et d'un jour à l'autre on aura disparu
Serons-nous détestables ?
Serons-nous admirables ?
Des géniteurs ou des génies ?
Dites-nous qui donne naissance aux irresponsables ?
Ah dites-nous qui, tient
Tout le monde sait comment on fait les bébés
Mais personne sait comment on fait des papas
Monsieur Je-sais-tout en aurait hérité, c'est ça
Faut l'sucer d'son pouce ou quoi ?
Dites-nous où c'est caché, ça doit
Faire au moins mille fois qu'on a, bouffé nos doigts.

Où t'es, papaoutai ?

Ditemi da dove viene lui, così alla fine saprò dove finirò io.
 Mamma dice che quando si cerca bene, si finisce sempre per  trovare.
Dice che non è mai troppo lontano, che va fuori spesso per lavoro.
Mamma dice: “E’ meglio lavorare che frequentare cattive compagnie, non trovi?”


Dov’è tuo papà? Dimmi, dov’è tuo papà?
Che non c’è bisogno di dirgli niente: lui sa subito cosa c’è che non va.
Benedetto papà, dove ti sei nascosto?
Che saranno mille volte che mi conto le dita...



Dove sei, papà? Papà, dove sei? 





Ad ogni modo, ci si creda o no, prima o poi ci si crederà meglio:
un giorno o l’altro saremo tutti papà, e da un giorno all’altro saremo spariti tutti.
Saremo detestabili? Ammirabili? Genitori o geni... fammi capire:
ma chi è che mette al mondo gli irresponsabili?
Spiegami un po’ questa cosa: tutti sanno come si fanno i bambini,
ma nessuno sa come si fa un papà.
Signor “so-tutto-io”, è un fatto ereditario succhiarsi il pollice, o cosa?
Dimmi piuttosto dove ti sei nascosto, che saranno mille volte che mi  mangio le dita.
Dove sei, papà? Papà, dove sei?
Dov’è tuo papà? Dimmi, dov’è tuo papà?
Che non c’è bisogno di dirgli niente: lui sa subito cosa c’è che non va.
Benedetto papà, dove ti sei nascosto?
Che saranno mille volte che mi conto le dita...

Dove sei, papà? Papà, dove sei?  




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mercoledì 11 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #3


 Più che attraverso l’odore, Giovanni credo che imparò a conoscermi e ad affezionarmisi attraverso le braccia ed il cuore, giusto una ventina di giorni dopo che si era stabilito qui con me insieme a Simona. Era giugno anche allora, il giugno di diciotto anni fa, Simona era al lavoro ed io in casa a coadiuvare il lavoro degli imbianchini chiamati a rinfrescare il mio appartamento stantio in occasione dell’arrivo dei nuovi occupanti. Uscendo per pedalare in fretta e furia verso un negozio di vernici vicino casa, vidi i due gattini bianconeri (Giovanni ed un suo sosia quasi perfetto) rincorrersi giocosamente davanti al cancello di casa, sul ciglio della strada. Il tempo di fare una decina di metri: un tonfo sordo, una Ypsilon 10 verdina che rallenta, accosta, guarda attonita nello specchietto, riparte. Vedendo uno dei due riverso sull’asfalto con gli occhi sgranati, tornando precipitosamente sui miei passi pregai dio che potesse essere toccato all’altro gatto, ma il collarino rosso che  adornava tintinnante il collo di quello investito spense subito ogni mia speranza. 

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In Morte del Fratello Giovanni #2

Episodi precedenti

   Da un paio d’anni, per via di una colonia di acari neri e appiccicosi che non ho saputo curargli che tardivamente e male, ha già perso quasi del tutto l’udito. L’olfatto invece è ancora buono: l’ipo-qualcosa a cui lo porta l’insufficienza renale cui è andato fatalmente incontro non ha intaccato la sua percezione olfattiva, e se “l’amore non è nel cuore, ma è riconoscersi dall’odore” come cantava qualcuno qualche tempo fa, l’accorgersi che avverte la mia presenza solo attraverso quel leggero e delicato movimento delle narici che interrompe per un attimo il suo costante torpore, mentre rialza a fatica il suo testone ed insieme accenna appena ad un delicato saluto sonoro, riesce a farmi sentire amato come in nessun altro modo possibile. 

   Al mattino gli riempio lo stesso le ciotoline, acqua e cibo. Annusa appena la pappina, qualche leccata al pelo dell’acqua, poi sale sulla mia seggiola della cucina, annusa con la sua solita curiosità la colazione che esce dal frigorifero o dalla dispensa, volentieri gli porgo sulla punta di un dito le consuete schegge di burro che sempre gradiva, ma scende subito, senza mangiarle, ancora efficace nel salto. E dalla sala attigua dove si ritira subito dopo, non grida nemmeno più come prima la sua rabbia assordante per me che non lo seguo, che non lo raggiungo, che c’ho da fare e che non ho tempo, nemmeno quei cinque minuti da prenderlo sulle ginocchia e accarezzarlo un po’: si ritira in silenzio, sale sulla poltrona, rimane qualche minuto gobbo a guardare il verde stinto e lontano del nostro cuscino, poi si accuccia e aspetta il mio odore, paziente, fino a mezzogiorno.

(segue)
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domenica 8 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #1

Di giusto gli è rimasta solo la testa, tutto il resto è meno di quel che dovrebbe: il collo, le anche scavate, la spina dorsale incurvata che lo fa assomigliare ad un buffo cammello. Ma soprattutto le zampe, quei piedini bianchi sulle quali ha sorretto tutta la sua esistenza di Pulcinella sono di una magrezza disarmante, inadatte all’apparenza anche a sorreggere solo quei pochi chili sui quali può ancora contare.
Si risolleva di tanto in tanto con meticolosa fatica e misurata pazienza, calibrando poi con cura i tempi e gli spazi del riadagiarsi, ritrovando ogni volta e nonostante tutto una di quelle posture piene di grazia che sempre me lo hanno reso così prezioso.
Sono ormai quattro o cinque giorni che ha praticamente smesso di mangiare, e da un paio di giorni anche la ciotolina per bere sulla quale si avventava ogni volta che gliela riempivo con un po’ di acqua fresca e nuova rimane tristemente riscaldata quasi all’orlo fino alla mattina dopo...

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