sabato 29 agosto 2015

Luna d'Agosto


Tra un plenilunio e l’altro
a volte passano trent’anni:
le sfere rallentano, come fossero una giostra,
dentro un mese circolare, già sembrato breve.

E così, tornato il giro, ti ritrovi sopra il mare,
volante,
una bottiglia di vino rosso, una gattina nera,
stretto
l’abbraccio di un piccolo cuscino.


Nessuna meraviglia, in cielo,
nessuna meraviglia:
è solo il conosciuto
fresco, chiarore amato, il dilatato
morso che spinge al passo
di nuovo
cento cavallini colorati.


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mercoledì 26 agosto 2015

Far From The Madding Crowd - Thomas Vinterberg (USA/UK 2015)

“E' difficile, per una donna, definire i suoi sentimenti in una lingua creata dagli uomini per esprimere i loro”.

   “Far From The Madding Crowd”, nonostante quanto sopra da esso stesso enunciato, nasce per mano di un uomo (Thomas Hardy), nel filone della monumentale/melodrammatica letteratura britannica ottocentesca che non ho mai avuto la fortuna di frequentare, ammesso che sfortuna sia. Ho invece avuto la fortuna di incontrare il suo corrispettivo cinematografico (versione 2015), confezionato dalle mani di uno dei miei registi preferiti (Thomas Vinterberg, uomo), il quale ha ritenuto meravigliosamente opportuno affidarne gesta e  speranze alla mia attrice ancor più preferita (Carey Mulligan, donna), mai vista, sino ad ora, meno all’altezza della volta prima.

   Anno 1870 - Bathsheba Everdene (lo racconta essa stessa nell’incipit) è un nome strano, che non le è mai piaciuto. Orfana e sola, cresce auto fortificandosi, indipendente, apparentemente libera ma in realtà circondata da una nuvola di ghiaccio della quale ignora ogni cosa, nelle rigogliose campagne britanniche dove incontra subito, senza essere in grado di riconoscerlo, il grande amore; il quale amore (impersonificato da Matthias Schoenaerts/ Gabriel Oak), un giovane dotato e risoluto, almeno sul lavoro, la chiede subito in sposa (precipitosamente, direbbe qualcuno di mia conoscenza...).
“Non mi dispiacerebbe essere una sposa, se solo ciò non comportasse il dover prendere marito”: questa è la sciocca risposta (ma mica tanto...) che da’ Bathsheba a Gabriel. Non è un sì, non è un no (ma è comunque ascrivibile come rifiuto, o quanto meno non accettazione), ed è soprattutto quella costante rivendicazione di autonomia di “bastante a se stessa” che tratteggerà il carattere della ragazza, e al tempo stesso la cortina di gelo dietro cui si nasconderà con fierezza la dolce e fragile Bathsheba per gran parte della vicenda. 

   Ben presto, due eventi fatali travolgeranno i due giovani spingendoli in direzioni opposte e contrarie (il cane pastore di Gabriel, in un raptus di follia notturno, spingerà tutto il suo gregge di pecore a gettarsi in un burrone provocando la rovina economica del suo padrone, mentre Bathsheba erediterà tutta una grande e prestigiosa fattoria dallo zio defunto) unendoli in un destino che vorrà lei nel ruolo di “Signora” e lui in quello di umile e fedele salariato. In realtà, l’amore mai sopito che alberga nascosto nel cuore di Gabriel (e  -lei ancora non lo sa-  anche in quello di Bathsheba), faranno di lui una sorta di Angelo Custode sempre presente e vigile nella vita dell’ormai ricca e stimata possidente, a cominciare da quei difficili esordi nel mondo del commercio su larga scala (magnifica la scena della prima volta in cui Bathsheba si reca con la sua assistente al mercato delle granaglie, unica donna -mai vista una, prima d’ora, in tale contesto!- perfettamente snobbata da tutti gli uomini presenti), fino a tutti i tormenti e i dubbi amorosi che attraverseranno lo spirito della ragazza, certamente oggetto del desiderio non soltanto del suo fido “pastore”.

   Dopo aver declinato anche la lusinghiera e teoricamente irrifiutabile offerta di matrimonio di William Boldwood (Michael Sheen), un ricchissimo proprietario terriero di mezza età rimasto volutamente scapolo dopo una cocente delusione d’amore di gioventù, Bathsheba incontrerà però la spada che farà breccia nelle sue eterne resistenze: sarà il sergente Francis Troy (Tom Sturridge) colui che per primo troverà la chiave per raggiungere il suo cuore, una chiave elementare, un vero “Uovo di Colombo”: tutti (tanti) l’avevano sempre e semplicemente chiesta in sposa, ma mai nessuno, prima dell’ardito sergente, le aveva detto semplicemente detto così, direttamente, senza mezze parole, quanto fosse bella. Scatta così in Bathsheba quel meccanismo primordiale e magico che la porterà alla sciagurata scelta di un (finalmente) marito che tutto potrà fare (dall’iniziare a dilapidarne il patrimonio al gioco, fino al riavvicinarsi ad una sua vecchia fiamma mai scordata, e rincontrata per caso ad un mercato) tranne che renderla felice.

   La vicenda (e con essa il film, sulla cui descrizione non mi dilungo oltre, anche per non pervenire ad antipatici spoiler), ricchissima di punti cardine, di  crocevia dirimenti, di coincidenze fatali, di incontri e scontri tra i vari personaggi (di pregio e particolare raffinatezza il rapporto di reciproco rispetto e stima, unita ad un’inevitabile rivalità che coinvolge Gabriel ed il ricco Boldwood, entrambe onestamente innamorati di lei) è una di quelle alle quali, magari anche dimenticandosi per un attimo tutte le considerazioni tecnico-artistiche sulle quali ogni buon dilettante cinefilo come me ama indugiare davanti ad un bel film, è soprattutto bello ed importante abbandonarsi, farsi raccontare, vedere ed ascoltare come un bambino ascolta una favola (si può forse dire che “Far From The Madding Crowd” non sia una favola?!), tanto più che l’estrema dolcezza che emanano e la tenerezza  che suscitano entrambe i protagonisti con le loro infinite schermaglie accompagna per mano ogni spettatore, su di un tappeto di struggenti violini stesi al sole insieme alle verdi campagne inglesi, verso il vero, unico finale che ogni bambino vorrebbe avere dalle sue favole preferite.

   Felice incursione di Vinterberg (già ruvido regista danese della galassia “Dogma”) in un genere per lui nuovo. Da vedere rigorosamente in versione originale casomai sottotitolata, non fosse altro per la musica dall’accento londinese che esce ad ogni parola pronunciata dalle splendide labbra di Carey Mulligan (su questo non sono obbiettivo, lo so. E non me ne scuso neppure...).
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venerdì 21 agosto 2015

Automata - Gabe Ibáñez (Spagna 2014)

Si potrebbe dire: “Quando una scimmia con la pistola incontra una scimmia col fucile, la scimmia con la pistola è una scimmia morta.”
Specie se c’è di mezzo una tartaruga.
“Automata” azzarda, e lo fa col piglio giusto. I “Pilgrim 7000” nascono nella finzione scenica voluta dagli autori del film come robot creati dall’uomo per difendere gli stessi uomini dai pericoli provenienti dal Cielo, in base ai protocolli classici che già furono di Isaac Asimov. Si riveleranno invece come un’umanità parallela, e più forte, forse perché esentati dal condividere le sorti di coloro che “Sono Nati” (leggasi: “Nati dal Cielo”), forse perché avranno avuto l’umiltà e l’intelligenza (tutta virtuale) di riconoscere che ogni e qualunque umanità non può avere il dio che si crede, bensì solo quello che riesce (e con fatica e sacrificio) a costruirsi e a darsi, fosse anche solo in forma di abbozzo di tartaruga cibernetica (peraltro ispirata a quelle umane, quelle che si tuffano nell’oceano per scomparire per sempre alla vista di chi ha la pretesa di possederle).
Eva di se stessa,  Cleo (il Pigrim 7000 protagonista del film,  conformato in fattezze di prostituta), forte del suo “biokernel” conduce il (non) suo Adamo/Banderas verso l’ingresso di (non la cacciata da) un nuovo Eden ancora tutto da bonificare (lasciato all’immaginazione dello spettatore, trascorsi i titoli di coda...), attraverso i pericoli delle tentazioni di un’umanità ormai prostrata, boccheggiante, fallita, a tratti ancora nobile d’animo e di intenti (felicissimo e prezioso il cameo della sempre bellissima Melanie Griffith, madame Banderas, contro la quale strali ingenerosi,  grossolani e irripetibili vedo riversarsi da parte della critica, nella parte della dottoressa Duprè),  a tratti ancora fertile e generosa (la vicenda intima e familiare della paternità del protagonista), ma sostanzialmente desertificata e divenuta ormai definitivamente inabitabile.
“Automata” potrebbe essere considerato a buon diritto un’eccellente versione riveduta e corretta de “Il Pianeta delle Scimmie” di quasi quarant’anni or sono. Da non esperto (e non frequentatore) del genere, non so dire quanti  neo- “Pianeti delle Scimmie” siano stati proposti in questo abbondante lasso di tempo; ma di certo (escluse le virgole, tipo il Banderas che meglio di lui ce n’erano un centinaio, o le intermittenti, stonate pennellate melò che sembrano –ahimè- imprescindibili nella filmografia tarhgettizzata USA, anche se Made in Spain), quest’opera di Gabe Ibáñez è altamente coinvolgente, strutturato in due fasi principali (la prima thriller-cittadina, la seconda ambientata  in un affascinante deserto radioattivo ricco di suspense), accompagnato da musiche/sonorità ritmate altamente adrenaliniche (tolte quelle sdolcinatamente melò) e da una scenografia/effetti speciali volutamente (credo, volutamente, essendo il regista grande esperto di effetti speciali) tenuti su scala di grigio e a quota di volo medio bassa, per meglio rendere il concetto di un futuro regressivo  voluto dalle didascalie che ci introducono alla vicenda.
Un bel film.
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domenica 16 agosto 2015

San Lorenzo, solo ritorno


Ho chiesto all’Angelo
quanto pesa una stella.
- Quale stella?
- Quella che non c’era.
- Lo spazio della sera preso in cielo, – mi ha risposto,
- Pesa del tempo che non sai più dormire,
   perso a guardarla. Estasi e capire.
   Pesa di un viaggio lungo,  e solitario.

Ho chiesto all’Angelo
di che brilla una stella.
- Quale stella?
- Quella vicino alla Luna Piena.
- Brilla la pena delle candele spente,
   accese mai, dell’esserti stupito.
   Brilla l’abbraccio dato, e ricevuto.

Ho chiesto all’Angelo
di cos’è fatta una stella.
- Quale stella?
- Quella che sembra d’oro.
- Di pane e acqua è fatta, di ristoro.
  Di cibo consumato con letizia.
  Di sete vinta, e calici di vita.

Ho chiesto all’Angelo
come muore una stella.
Ma l’angelo
ha chiuso lo sguardo
in un sorriso.

Solo una voce
lontana
giungermi sentivo.


“Qui”, ripeteva. “Qui”.
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mercoledì 12 agosto 2015

San Lorenzo, solo andata


Odio di voi
feste cadenti
di luci sbarazzine
e ridaiole femmine vestite
di soli pallidi risvolti,

odio di lampi
telecomandati,
passi ordinati
in danze becere e insensate,

odio di voi serate
nude le luci, i guizzi
l’odor di pesce, e pizza, e trippa
- che non c’è mai per gatti –

odio questo bisogno fracassoso
che m’incatena a voi
questa necessità incapace,

io, che la mia stella libera
di San Lorenzo è l'unica
ad essere salita.


E brilla,
e brilla
senza darmi pace.

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lunedì 10 agosto 2015

Ogni caso



Poteva accadere.
Doveva accadere.
E’ accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
E’ accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perchè a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.

Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna c’era una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.

In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.

Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La reta aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.


                                                  (Wistawa Szymborska)

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giovedì 6 agosto 2015

Uno più Zero: Uno

La prima volta fa uno,
la seconda raddoppia,
la terza racconta,
e alla quarta sei già bellissima.
La quinta dico, guido, porto,
la sesta aspetto, prima che piova.
La settima, che bevo, aspetto ancora,
l’ottava suona alla porta, di violini e orchestra.
La nona ho paura,
La decima ride, di me e di noi.
Ride...
E dopo il dieci non so:
uno più zero fa uno.
Si ricomincia.


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Tatuaggi




Né braccia, né gambe,
né anche, bacini,
né spalle forzute, né schiene diritte,
né nuche possenti,
caviglie, polsini....

Disegno e Ferita,
non voglio parlare...
i miei tatuaggi li ho fatti sul cuore,


e solo chi mi ama li può vedere.

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domenica 2 agosto 2015

Mi vesto di profumo

Se mi vesto di solo profumo
non devo scegliere una camicia
che mi faccia il cuore prigioniero,
e la sua giacca,
 intonata di inutili colori.
Non ho bisogno di una cravatta
che mi trattenga, ostaggi, le parole in gola,
anche quando non servirebbe parlare.
Non mi serve nessun pantalone,
perché non ho nessuna vergogna da nascondere,
e non devo nascondermi da nessuna vergogna.
Non devo cercare, tra le mie scarpe,
quelle che si adattano alla strada,
perché i miei piedi camminano il cielo,
e non sentono male.
Se mi vesto di solo profumo,
indosso solo l’eleganza
nuda
di quella che amo.

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