venerdì 16 dicembre 2016

Der Mondmann - Stephan Schesch, Sarah Clara Weber (Fra 2012)

   Un approccio cristologico al film sarà senz’altro esagerato. Però, a cominciare dal: “Io non sono di questo mondo”, dalla sua insistita mitezza, dall’essere amato e cercato soprattutto dai bambini (e poche altre persone buone), dall’essere perseguitato dal Potere  senza motivo e sulla base esclusiva di menzogne, mi ha fatto per un attimo pensare che se  Cristo (quello vero) non si fosse fatto prendere dalla mania assurda di voler salvare il mondo a tutti i costi,  il candido e tondo protagonista di questo film potrebbe davvero assomigliargli.

Senz’ossa e organi interni (ma non per questo “puro spirito”), quasi analfabeta e perciò ricchissimo di ignoranza, “Straniero alla Terra” (come direbbe Richard Bach), annoiato del suo status incompleto e incorporeo confuso tra le rocce lunari  e che, prima di commettere il suo peccato originale (quello di volersi aggrappare alla coda di una cometa per visitare la Terra), non conosce ancora il vero perché del suo esistere, der Mondmann trapassa la crosta degli Uomini in maniera indolore, con la delicatezza innocente di un “Angelo Caduto dal Cielo” (come direbbe Nada), un angelo speciale e diverso perchè costantemente presente presso gli Uomini, merito questo che gli Uomini stessi (illuminati e non) non tarderanno a tributargli una volta incontrato di persona, e per questo perseguitandolo oppure aiutandolo con tutte le forze, a seconda dei casi. Der Mondmann è  una Verità che si autorivela senza bisogno della mediazione di nessun profeta (sovrastruttura notoriamente inutile di ogni religione), che, pur perfettamente in grado di compiere miracoli,  non pretende ma al contrario chiede, bisognosa, sostegno ed aiuto anzitutto per se stessa.

Se tutto questo non bastasse, e se non bastassero le tavole dei disegni di questo delizioso cartoon colorato ed animato con profonda modernità e con altrettanto profondo rispetto per una tradizione dei film di animazione alla quale attinge senza vergognarsi affatto, se non bastassero alcuni quadri divertentissimi dove alla Natura intera è dato prender parte alla vicenda (il duo dell’alce e del gufo con la torcia, il povero orso bianco che trattiene il fiato per compiacere “Herr President”), allora forse il poter riascoltare, dopo secoli che non risuonava più da nessuna parte, le note del riff di “In A Gadda Da Vida” inserite nella colonna sonora, potrà forse bastare per farvi innamorare di questo film. 
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lunedì 5 dicembre 2016

Free State of Jones - Gary Ross (USA 2016)

“Some people say a man is made outta' mud.
A poor man's made outta' muscle and blood.
Muscle and blood and skin and bones.
A mind that's a-weak and a back that's strong”


A voler essere provocatori, “Il Libero Stato di Jones” che Newton Knight, intorno agli anni di tardo 1800 tra la presidenza Lincoln e quella Johnson in cui Lamerica tentava di sdoganare i “niggers”, può essere considerato il prototipo del perfetto stato comunista, di per sé validissima spiegazione alla brevità del suo esistere. I punti che il Cavalier Newton enunciò nel discorso della proclamazione della sua indipendenza, davanti ad una folla di contadini, ex schiavi, disertori, nonchè relative mogli e progenie dei succitati,  furono infatti (riassunti): nessuno può restare povero se poi un altro diventa ricco, nessuno può dirci per cosa morire o per cosa no,  chi semina raccoglie e quel che raccoglie è solo suo, e noialtri siamo tutti uguali. Applausi.
   Non conoscevo questo breve capitolo di Storia che Il regista Gary Ross ha voluto proporci attraverso il cinema. Episodio marginale, fugace, drammatico come ogni rivoluzione è drammatica, intenso come una Favola e come ogni Favola con una morale puntualmente disattesa dalla Storia, che delle Favole è la peggior nemica.
Peccato però che Gary Ross, pur avendo indovinato non poche scene (una su tutte: l’improvvisa sparatoria multigenere e multietnica durante un finto funerale), non abbia saputo dare alla vicenda il clima, il tono, il colore che probabilmente quella bella Favola nera (e bianca) deve aver avuto nella realtà, almeno come me la figuro io.
   Attraverso lo sguardo perennemente allupato del protagonista, caratterizzato in modo spesso eccessivamente ridondante, pontificante, una sorta di  “one-man-band” buono per ogni cosa, da sindaco a prete, da generale a fabbro, da contadino a bravo marito, leader, soldato, infermiere, stratega, psicologo, fratello maggiore, ottimo cecchino, naturalmente anche un po’ fico, Ross sceglie un taglio patinato, un tono favolistico che non avrebbe dovuto avere (se voleva essere un film storico), che strizza troppo l’occhio a Robin Hood quando gli contrappone un Tenente Fetente nel ruolo dello Sceriffo di Sherwood  e gli affianca una Lady Marion di origine africana, o quando ripulisce un po’ ipocritamente gli stacchi scenici tra un taglio delle palle al negro o lo strozzamento dello stronzo sudista, e soprattutto in quella parte di film un po’ zoppicante e distonica, dedicata al flash forward in cui i discendenti di Knight, quasi cent’anni dopo,  in piena era di “Missisipi Burning” sono ancora alle prese con le questioni razziali.
    Anche la colonna sonora non si fa apprezzare troppo: personalmente, ad esempio, al posto della sdolcinatissima e melliflua “I’m Cryng” interpretata da Lucinda Williams sui titoli di coda, avrei preferito sentir risuonare la celeberrima “SexteenTons”, una sorta di spiritual moderno, creata e portata però al successo dai bianchi verso il 1950 (questa è una delle poche versioni che ho trovato in rete in cui è cantata da un nero, e male, visto che, invece di cantarla sporca di carbone come dovrebbe essere, la canta sì con tono di basso, ma come se fosse un chierichetto eunuco), un contorto omaggio al bravo Matthew McConaughey che, in questo film sicuramente privo di colpe sue, nel 2012 era stato il protagonista di “Mud” (cioè “Fango”), ciò di cui (dice la canzone) è fatto e costituito  “il pover’uomo, muscoli, pelle, sangue ed ossa, la schiena forte e la testa vuota”, conformemente a ciò che ancora nel terzo millennio, anche in era carbo-Trump, possiamo registrare in termini di schiavismo irrisolto.
    Film passabile, per lo meno sul piano degli ideali che riporta.
Grazie lo stesso, Mister Knight. 
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martedì 29 novembre 2016

Snowden - Oliver Stone (Usa 2016)


I tempi della distribuzione italiana hanno fatto sì che, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, uscissero “Lo and Behold” e “Snowden”. Se Werner Herzog non era riuscito a metterci in guardia dalle insidie connesse (è proprio il caso di dirlo) alla globalizzazione della tecnologia, non poteva fallire Oliver Stone (almeno in questo intento) dando voce a corpo alla storia recente di Edward Snowden, l’uomo che ha fatto arrossire per un attino tutta la classe dirigente degli USA con le sue improvvise rivelazioni sullo spionaggio segreto informatico multilivello. Classe dirigente che, peraltro, dal Presidente Obama in giù non fece una piega davanti a questa cannonata e, con poche fiorettate di diplomazia, spedì il signor “No One” Snowden fino al confino volontario in Russia, dove risiede tutt’ora, probabilmente nemmeno più ricercato.

E non so se il monito principale di questa storia sia quello di riflettere su ciò che siamo diventati oggi tutti noi, entusiasti o anche solo forzatamente assuefatti della/alla nostra costante interconnessione full time, di renderci consapevoli che questa nuova modernità dalla quale non sapremo mai più tornare indietro non è solo una bella comodità, ma è anche la migliore trappola per topi che “Il Potere” abbia mai innescato nella storia dell’umanità, o non sia piuttosto quello di renderci consapevoli, se anche le rivelazioni di Snowden non sono riuscite a cambiare nulla,  che la partita è irrimediabilmente persa, e che forse (magra consolazione) possiamo anche smettere di lamentarci delle innocenti “Ads” con cui ci tormentano i vari gùgol ogni minuto, e cominciare ad essere consci del fatto che ogni minimo dettaglio, ogni nostra stupida foto delle vacanze, ogni tag, ogni like, ogni nostro click sulla tastiera è tracciato, conosciuto, eventualmente usato, dovesse servire,  anche contro di noi.
Per quel poco che so e ricordo di Oliver Stone, massiccio combattente di stampo comunista, probabilmente le intenzioni del film non erano queste: la rotta che il regista da alla vicenda non pare voglia virare verso la rassegnazione e, fino alla fine, la figura di Edward Snowden, che pure non viene affatto disegnata (molto opportunamente, direi) coi tratti dell’eroe, rimane quella di una persona disincantatamente idealista, che dubita pur senza esitare, e che comunque agisce e si adopera per una “giustizia” alla quale non si sa voglia davvero credere, ma alla quale tende quasi soltanto per un principio ineludibile di chissà quale Legge della Fisica: insieme pregio e difetto della sceneggiatura, è quello di non saper spiegare fino in fondo allo spettatore il “perché” Snowden abbia deciso ad un bel momento di vuotare il sacco, e men che meno (ma questo non può certo essere addebitato alla sceneggiatura realizzata da Stone) che cosa si aspettasse da questo suo agire.
Un po’ Harry Potter rubato alle favole (il bravo Joseph Gordon-Levitt gli somiglia), un po’ Braveheart, un po’, se vogliamo, anche uno di quei non-eroi da cui Werner Herzog avrebbe saputo trarre uno dei suoi magnifici documentari biografici se solo il personaggio non fosse stato così tanto esposto alle cronache mondiali, Snowden (persona)  ne esce in modo semplice, come fosse un qualunque bravo ragazzo, mentre “Snowden” (film) si lascia tutto sommato apprezzare grazie ad un mestiere che a Oliver Stone certo non manca (ho notato alcune fulminanti zummate brevissime che tendono a porre l’accento non so bene dove, ma che forse danno la cifra della beatitudine incantata e un po’ drogata in cui versano, ormai, galleggiando come una ninfea appassita, i vecchi comunisti come lui), e ad una scrittura filmica molto classica, saggiamente poco pretenziosa, come fosse semplicemente uno dei tanti articoli di giornale che riportarono dettagliatamente  dell’Affaire Snowden e coi quali, da Obama in giù (o in su), tutti i Potenti ci si sono puliti il culo (scusate, m’è  uscita...).  
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lunedì 28 novembre 2016

Toda mi Vida (José María Contursi/Anibal Troìlo)

Hoy despues de tanto tiempo
de no verte, de no hablarte,
ya cansado de buscarte
siempre... siempre...
Siento que me voy muriendo
por tu olvido lentamente
y en el frio de mi frente
tus besos no dejaras!

Se que mucho me has querido
tanto... tanto como yo!
Pero en cambio yo he sufrido
mucho... mucho mas que vos!
No se por que te perdi,
tampoco se cuando fue,
pero a tu lado deje
toda mi vida.
Y hoy que estas lejos de mi
y has conseguido olvidar,
soy un pasaje de tu vida...
nada mas!

Es tan poco lo que falta
para irme con la muerte...
Ya mis ojos no han de verte
nunca... nunca!
Y si un dia por mi culpa
una lagrima vertiste,
porque tanto me quisiste
se que me perdonaras!
Dopo tanto tempo che non
ti vedo, non ti parlo, ora
sono stanco di cercarti
sempre, sempre...
Mi hai dimenticato, e questo
mi sta facendo morire piano,
perché non lascerai più i tuoi
baci sulla mia fronte gelata.

So che mi hai amato tanto,
come io ho amato te.
Però io ho sofferto molto
più di te.
Non se perché e quando
ti ho perduto,
ma ho passato tutta la mia vita
accanto a te.
Ora sei lontana, hai voluto
dimenticarmi, per te sono
stato soltanto un episodio
della tua vita, nient’altro.

Ormai manca così poco
prima che io debba morire.
I miei occhi non ti
rivedranno mai più.
E se mai dovesse scenderti una lacrima intanto che ti ricorderai  del mio amore, so che mi perdonerai.




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giovedì 17 novembre 2016

Les Innocentes (Agnus Dei) - Anne Fontaine (Francia/Polonia 2016)




“Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai”
(Matteo 18, 1-5)
“La fede è fatta di 24 ore di dubbio per ogni minuto di speranza”.
(Suor Maria)



     L’approccio perfettamente laico alla questione “fede” è senz’altro il punto di forza di questo bellissimo “Les Innocentes” (perché in Italia “Agnus Dei”??... Mistero Doloroso!): le sconvolgenti incursioni degli eserciti prima tedesco, poi russo all’interno dello sperduto convento nella fredda Polonia del dicembre 1945, lasciano alle consorelle che lo abitano, oltre che sei o sette gravidanze per nulla attese, ben seri motivi per interrogarsi e di conseguenza interrogare lo spettatore sul significato della fede in Dio. 
   
Il manipolo di consorelle pensato dagli sceneggiatori (del quale fa parte la stessa regista Anne Fontaine) è di per sé una corale  testimonianza laica: nel piccolo microcosmo solo in apparenza separato dal mondo, ogni suora vive la sua esperienza in maniera differente: una teme l’inferno, una sorride divertita quando la dottoressa la visita toccandole il pancione, una si contorce disperata nel timore di contravvenire alla Regola, un’altra tace fino all’ultimo e partorisce sola, senza che nessuno nemmeno si sia mai accorto del suo stato, un’altra scopre di avere altrove (forse nel fumo di una sigaretta) la sua vera vocazione...  E alla testa di tutte loro la figura della badessa
(curioso, una sorta di contrappasso: Agata Kulesza, l’attrice che le dà corpo,  tre anni fa fu il contraltare, anche allora perdente, della novizia “Ida”, in un film altrettanto polacco e meraviglioso di Pawel Pawlikowski– non c’è da meravigliarsi, data l’ultra cattolicità della nazione, che ne escano tanti film di suore...-), l’unica la cui ostinazione per una fede vissuta come indiscutibile e monolitica la renderà incapace di trarre “il bene dal male”.
   

   
   Ma la figura che campeggia sopra ogni altra, a mio avviso, è quella di suor Maria, la vice badessa (una superba Agata Buzek), la cui fedeltà ai voti presi e agli obblighi da questi derivanti  non sono mai messi in discussione, ma sono casomai, alla luce degli eventi, stimolo di continua riflessione e di perpetuo interrogarsi;  la bella amicizia che finirà per legarla a Mathilde
(splendida e commovente la scena in cui Maria aiuta la dottoressa ad indossare un grazioso abitino rosso e nero, quello che lei stessa portava il giorno che entrò in convento, simbolo e retaggio di una razionalità e di una intelligenza che nessuna fede, per quanto grande e potente, ha potuto cancellare in lei) è di nuovo testimonianza di come il credere non sia mai un porto sicuro, un  punto di arrivo, ma sia un mare in continuo movimento dove, appunto, le giornate di chi crede in Dio “sono fatte di ventiquattr’ore di dubbio e di un minuto di speranza” (sua la battuta, all’interno del film).


    Del resto, anche sul versante non confessionale del cast, l’estrazione comunista di Mathilde (la dottoressa protagonista interpretata da una brava, ma a mio avviso non eccelsa Lou de Laâge), che fa il paio con la tormentata storia del dottor Samuel (Vincent Macaigne), un passato di ebreo intrappolato dentro gli orrori del ghetto di Varsavia e convinto che gli unici polacchi degni di rispetto siano ormai tutti morti dentro quegli orrori, la laicità è insita nel DNA originale, oppure vi è stata inoculata con la forza e la violenza della vita.


Lo scambio benefico e nutriente tra fede e razionalità è insomma la vera misura di questo film,  dove una giovane dottoressa comunista francese si convince ad aiutare le suore straniere solo  dopo aver intravisto tra i vetri la preghiera di una giovane novizia inginocchiata sulla  neve, dove la quota maschile, sia attraverso il suo portavoce principale (il già citato dottor Samuel, buono ma cinico, tenero ma prepotente, opportunista ma generoso),
sia dalla schiera di “fantasmi” uomini (è ripresa “fuori fuoco” la  soldataglia russa che irrompe sulla scena a metà film)è doverosamente minima e si traduce in un solo, semplice concetto, in contrasto sia con la fede, sia con la ragione: ambiguità.

   Anne Fontaine, anche avvalendosi di una splendida fotografia che definirei pacatamente poco sopra il bianco e nero (bianco è nero è l’abito delle suore...), tra silenzi ultraterreni e grida,  spesso con piccoli movimenti di camera appena percettibili quasi fossero opera intangibile dello Spirito Santo, con alcuni quadri magistrali di fuochi alternati (i migliori quelli riservati al duo Mathilde/Maria), in un film la cui unica pecca, a mio avviso, è quella di non aver saputo osare un po’ di più in termini temporali
(se alcune scene fossero state mantenute più a lungo, qualcuna delle tante emozioni che il film riserva fosse rimasta in scena un po’ di più, avremmo avuto un film forse meno “commerciabile”, ma di certo coraggiosamente pronto a spingersi verso e magari oltre le tre ore di durata, che credo non sarebbero state per nulla pesanti) fino ad una soluzione finale indovinatissima e felice, laddove (senza spoilerare alcunché),
potendo ragionevolmente asserire che i veri protagonisti siano in fondo i nuovi nati,  la “morale” del film può forse essere efficacemente sintetizzata dalla frase del Vangelo: “Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai”. 

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lunedì 7 novembre 2016

Certain Women - Kelly Reichardt (USA 2016)

Certe donne, come Laura, avvocato (meglio: avvocata. E’ Laura Dern, quella che qualcuno: “Oh, sì, quella di Jurassic Park!”), non si capacitano: per mesi (otto), senza un sorriso, difendono una causa persa, persa da un uomo, un brav’uomo, innocente, ipovedente per colpa di certo libero mercato del lavoro. Lo difende senza speranza, è lei la prima a non dargli la speranza che sa (lei) di non potergli dare. Ma deve aspettare che arrivi un avvocato uomo, uno con la barba, quindi senz’altro uomo, prima che l’altro uomo, colpevole di troppa ingenuità ipovedente sin dall’inizio, possa rassegnarsi a quel che lei, avvocata donna, ha cercato di spiegargli senza verso per otto lunghi mesi, salvo protrarsi in generosità e attenzioni milkshakerate alla vaniglia, tipicamente femminili e quindi il più delle volte non dovute, dentro una prigione per soli uomini.

Certe donne hanno un marito. Anche questo con la barba, e che forse ogni tanto è stato amante di un’avvocata, giusto il tempo di impallarla mentre lei è inquadrata (piccolissima) dentro uno specchio tondo,  intanto che si rinfila (lui) le sue mutande spettinate da uomo. Queste si chiamano Williams, come un noto after-shave d’antica memoria. Michelle, di nome. E’ quell’attrice che, disponendo  della decima parte delle tette di Marylin Monroe, è stata l’unica ad avere il coraggio di accettare di recitare il ruolo di Marylin Monroe in un film, e che ci è riuscita come nessun’altra avrebbe saputo fare (non è un caso che la Reichardt l'abbia voluta più volte nei suoi film...). 

Certe donne come questa  (Michelle Williams è Gina, nel film), non capiscono perché tocchi sempre a lei fare la parte del cattivo (cioè, della cattiva). Poi le basta saper interpretare un attimo, spontaneamente, tradurre in umano e in un lampo  la risposta delle quaglie (“How are you? How are you?” domandano trillando i pennuti maschi. “I’m just fine! I’m just fine!” pigolano le loro femmine, nascoste tra l’erba e le pietre di arenaria), ed ecco che l’uomo/maschio le cede il passo, e i diritti, e le pietre. Ammirato, sorpreso,  nemmeno lui sa perchè.

A certe donne (come Lily Gladstone) non serve nemmeno un nome dentro il loro film, e costoro non sanno nulla di più dei loro cavalli, della fattoria, del trattore che guidano in mezzo alla neve e di quello strano cane quasi senza zampe che gli corre dietro come impazzito, delle balle di fieno, delle stalle, di una pelle che è sua, che è stata sua, e che è stata rossa molti Presidenti prima. Poi, una sera, entrano per caso in un aula di doposcuola, senza iscrizione, senza motivo, e forse più tardi, sopra un cavallo montato in due, si innamorano dell’insegnante che cavalca con loro seduta dietro, e che poi  scompare, e che rincorrono ostinate e disperate senza sapere nulla di cosa sia l’omosessualità, senza sapere nulla delle quattro ore d’auto che raggelano il cuore dopo il tepore di un fast food dove non si mangia nulla, dove c’è fame solo di sogni e di riscatto da non si sa cosa, prima di tornare senza un lamento alla loro vita fatta di cavalli e di strani cani
A certe donne, come Kelly Reichardt, che firma regia e sceneggiatura di questo sua nuova, splendida storia suddivisa in tre episodi, piacciono i treni, i luoghi con poca gente, la gente di poche parole. Loro inanellano perle di film, (Old Joy, Wend & Lucy, Meek’s Cutoff, Night Moves) che non si possono definire capolavori solo perché (sono sicuro) a loro per prime non piacerebbe una parola come “capolavoro”: a certe donne (forse a quasi tutte, sicuramente alla Reichardt) non credo interessi sfornare “capolavori”, questa è gente a cui piace lavorare, lavorare bene, e basta. 

 Anche stavolta nelle sale italiane il suo film non si vedrà. Non la si è vista mai, salvo qualche concessione festivaliera qua e là (Torino, Venezia) che puzza di presa in giro, che grida vendetta e maledizione. Ma forse certi pubblici non meritano tanta sublime modestia, tanto preziosa onestà e rettitudine di mestiere, tanta arte e raffinatezza d’animo, magari perché certe donne, in Italia, sono pronte a correre due/tre volte, pazze di Pazza  Gioia, a vedere (e pagando) le Ramazzottate Brunito-Tedesche firmate dai Beati Paoli Virzì, convinte di vedere al cinema qualcosa che abbia davvero Profumo di Donna, magari come quello raffermo e imbolsito della speriamo-non-presidente Clinton, e della sua America che a certe registe come la Reichardt riserva solo qualche ritaglio di attenzione il lunedì sera tardi.
Sveglia, signore e signorine: “Certain Women” dobbiamo esserlo noi per prime.
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giovedì 27 ottobre 2016

Bigmouth - The Smith (A.D. 1986)

Sweetness, sweetness I was only joking
When I said I'd like to smash every tooth
In your head.



Oh sweetness, sweetness, I was only joking
When I said by rights you should be
Bludgeoned in your bed.

And now I know how Joan of Arc felt
Now I know how Joan of Arc felt
As the flames rose to her roman nose
And her Walkman started to melt.





Oh Bigmouth,  bigmouth,
Bigmouth strikes again
And I've got no right to take my place
with the human race.

Avanti, dolcezza, su....
scherzavo...
Ho detto che vorrei romperti
tutti i denti che hai in bocca?


Che bisognerebbe prenderti a randellate
fino ad ammazzarti
intanto che te ne stai a letto beata?

Ma dai, su... che sono solo un boccalone.
Pensa invece a Giovanna d’Arco,
a quel suo bel nasino romanico
che prende fuoco
mentre il walkman gli si squaglia dentro le orecchie!
Eh, dolcezza? Che ne dici?


Avanti, dai... Noi,
noi siam mica di questo mondo....




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martedì 18 ottobre 2016

Maryland - Alice Winocourt (Fra - 2015)

     “Maryland” è un luogo. E’ il nome di una lussuosa villa francese dove il signor Whalid, ricco libanese di non meglio (non subito) precisata professione, vive con sua moglie, il figlioletto  e qualche domestico. Il titolo del film è già azzeccato di suo: fissare l’accento su di un luogo piuttosto che su persone o accadimenti, è ben fatto per un film dove poco o nulla accade, dove la maggior parte delle cose è inserita per sottrazione, e dove persino il cane di casa fa di nome “Ghost”.

   Vincent è un reduce d’Afghanistan, dunque è classico il suo patire di PSTD (Disturbo Post Traumatico da Stress). Per lui, in alternativa ad un improbabile nuovo reclutamento nelle zone di guerra, si prospetta un lavoretto per niente mal retribuito allorquando, dovendosi il ricco libanese assentare “per affari” a   Ginevra per un paio di giorni, gli viene proposto di fare da bodyguard alla bionda signora rimasta sola in quel di Maryland.
   Jessie è la bionda signora di cui sopra. Candida pelle sovresposta pressoché dall’inizio alla fine (mozzafiato il suo abito d’esordio alla festa cocainizzata dell’entuorage di suo marito e dei suoi – non loro – amici faccendieri alla villa), la sua passività apparente sarà in realtà la “seconda fase” di quel motore a scoppio che correrà veloce e senza fretta, insieme al pistone Vincent, per tutta la durata del film.

   Alice Winocour, classe 1976, Parigina, già in nomination per l’Oscar per il film “Mustang” e che, oltre a quello, vanta una  bella sfilza di riconoscimenti e premi quanto basta per essere alquanto snobbata dalla distr(ib)uzione italiana (sic!), sapientemente utilizza la prima mezz’ora di questo film come introduzione didascalica alla non-vicenda; dopo di che, “Maryland” è praticamente un “passo a due” tra gli ottimi Matthias Schoenaerts e Diane Kruger (da notare: nessuno dei due di madrelingua francese, e pertanto ancor più meritevoli di elogi), del quale molto sottilmente, in un’atmosfera tesa e a tinte fosche solo in apparenza noiosa, la regista, con magistrale, finta lentezza, e con un dosaggio perfetto dell’evoluzione dei non-eventi, saprà rendere  il senso ultimo delle cose grazie ad  un ottimo finale  che, se non nei fatti, resta comunque aperto nelle intenzioni, esplicativo e  rivelatorio insieme, conferendo ai due protagonisti la tridimensionalità di un tutto tondo disperato e bisognoso al di là di quanto le loro stesse coscienze abbiano potuto riconoscere in loro stessi.

Riuscitissima la scelta dei due attori protagonisti: gli sguardi perennemente bassi di un ultra-buono (anche quando gli tocca la parte del duro) come Schoenaerts, e la gelida ultra-bellezza della Kruger (sempre altrettanto gelida sia nei ruoli di vittima innocente, sia in quelli di subdolo carnefice) si fondono  perfettamente e in maniera quasi sorprendente grazie all’impasto creato da una regia molto attenta ai particolari, ai dettagli, come detto all’inizio: alle sottrazioni (fulminea, sbrigativa e cruciale la morte della madre di Vincent ad inizio film),  abilissima nel procedere rettilineo e costante verso un obiettivo sempre latente eppur sempre presente.


   “Maryland” è un film non da una visione sola, se non altro per poter rivedere con la dovuta calma la scena del pre-finale, l’ultima aggressione in villa dei “fantasmi incappucciati”, nemici solo per contratto e pertanto senza nessun nerbo, dove la brutalità inaudita usata da Vincent/ Schoenaerts è come l’estuario in cui il fiume di pena dei due protagonisti  tenterà di dissolversi.
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domenica 9 ottobre 2016

Avril et le Monde Truqué - Franck Ekinci, Christian Desmares (Fra/Can 2015)

   Il “Mondo Truccato” della giovane Avril, ultima della schiatta dei Franklin, è una Parigi Imperiale tra gli anni ’30 e ’40 del secolo passato che, sotto il regime di Napoleone Quinto, canta una marsigliese perfettamente riconoscibile e diversa, ha due Torri Gemelle come gli americani di Bin Laden (ma sono due Torri Eiffel) , è rimasta imbrigliata in uno stallo tecnologico che procede a carbone (intanto che l’elettricità è ancora un segreto conteso tra pochi), Parigi e Berlino sono unite tra loro sia da un treno a vapore che le collega in comode 82 ore, sia dal nemico comune, le Americhe, alle quali muovono guerra, alleate con l’Europa intera,  per conquistare le preziose foreste del Canada.

    Ma è anche un Mondo dove certi gatti parlano, e parlano anche certi rettili “mutati” oltre mezzo secolo prima a causa degli esperimenti  del bisnonno di Avril, costui vicino alla scoperta  dell’Elisir di lunga vita, ovvero quel Siero dell’immortalità  del quale il Napoleone dell’epoca (era il Terzo, quello vero), alla soglia della guerra contro i Prussiani del 1870, voleva assolutamente impossessarsi. Il “punto di rottura” avviene qui, nel luglio del 1870: è l’incipit del film, dove la Storia reale devia dal suo corso quando un improvvido sparo nel laboratorio di Gustav Franklin rende un’inaspettata libertà ad una coppia di varani...


Nel mondo che ne scaturisce, immaginato dagli sceneggiatori Franck Ekinci (che firma con Christian Desmares anche la regia) e Benjamin Legrand,  disegnato dall’estro di Tardi, trovano posto marchingegni fantastici di ogni genere, case che camminano e nuotano, topi spia, nuvoloni neri e minacciosi dai quali si dipartono raggi cosmici, immensi laboratori sotterranei, veri Universi Paralleli,  dei quali nessuno sospetta l’esistenza e dove una nuova, apparente e sconosciuta tirannia, tiene prigionieri tutti i migliori scienziati della terra affinché portino a termine gli studi del primo dei Franklin. E dove, ovviamente, la ricercata numero uno è proprio Avril, l’unica in possesso del prezioso segreto, ricercata per lo stesso motivo, insieme a suo nonno, anche dalla buffa polizia imperiale di Napoleone Quinto.

“Avril et le Monde Truqué” è un film delizioso sotto ogni aspetto: a cominciare dal tratto semplice e accattivante dei disegni, da una sceneggiatura degna di una spy story, da un susseguirsi di colpi di scena perfettamente dosati nei tempi e nei modi, dalle molteplici sfaccettature di molti personaggi (i genitori di Avril non sono esattamente un “papà e mamma”;  idem per gli stessi “nuovi tiranni”,  il cui rapporto tende ad un’inevitabile degenerazione; il giovane Julius che, al soldo della polizia, prima inganna e poi si innamora di Avril  prendendone le parti;  persino l’ ispettore di polizia Pisoni, sulla carta il peggior nemico della buona eroina, alla fine avrà un ruolo determinante per il buon esito della vicenda e per il trionfo del Bene), e non ultime tutte le considerazioni “sociali” che può suscitare, laddove la questione del poter possedere o meno uno strumento come “Il Siero Definitivo” divide inevitabilmente coscienze e destini della Natura intera.
   
Ma se c’è una cosa che sopra tutte rende questo film davvero imperdibile (oddio... ho detto imperdibile?!? In Italia non è mai stato distribuito....) è Darwin, il gatto di Avril (nomen omen), le cui gesta a metà tra quelle di un gatto qualunque che si elettrizza alla vista di un topo, quelle di un supereroe che si lancia, steso come un tappeto, per infilarsi nell’ultimo spazio utile per salvare l’Universo, e quelle di un Cupido vagamente saccente che se la ride sotto i baffi degli screzi infantili tra Julius e Avril, avrebbero potuto conquistare benissimo anche il pubblico di grandi e piccini della nostra piccola Italia. Da una parte meglio così: ci siamo risparmiati il dover sentire la voce di Frizzi... Ottimi invece i contributi vocali francesi, da Marion Cotillard a Bouli Lanners, Olivier Gourmet e Jean Rochefort, e per il sottoscritto una piccola sorpresa personale, avendo io da tempo perduto le tracce ed ora finalmente ritrovata (anche se solo, ahimè,  via audio) la bellissima Anne Coesens.

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giovedì 21 luglio 2016

Dio che non sei (Yves Bonnefoy)

“Dio che non sei
posa la mano sulle nostre spalle,
disegna il nostro corpo
col peso
del tuo ritorno.

Compi la fusione delle nostre anime
con gli astri, i boschi, le grida degli uccelli,
le ombre
e i giorni.

Rinuncia a Te in noi
come si squarcia un frutto.
E noi cancella in Te,
rivela il senso misterioso
di ciò che è solo semplice.

E senza fuoco
cadrebbe
in parole senza amore.”


                                     (Yves Bonnefoy)
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lunedì 11 luglio 2016

Here Comes the Flood (Peter Gabriel - 1977). Libera traduzione e azzardato commento.

   Sono passati quasi quarant’anni da che “Here Comes the Flood” uscì in vinile e a 33 giri, brano di chiusura del primo album solista di Peter Gabriel: Gabriel aveva appena lasciato i “Genesis”, decretando contemporaneamente il fallimento di questi ultimi e l’affermazione di se stesso come uno dei più grandi geni della musica “pop” contemporanea. 

   Azzardare una traduzione di questo brano non è cosa facile: non lo è mai quando si tratta di geni, meno ancora se a farlo ci prova un semplice praticone come il sottoscritto. Ma nessuna delle traduzioni (quelle letterali sono improponibili sotto ogni aspetto) o “interpretazioni” più ragionate del testo che ho trovato in rete mi ha pienamente convinto, comprese quelle che si sono encomiabilmente sforzate di partire da quel poco che si ritrova delle spiegazioni date dallo stesso Gabriel al testo per poter pervenire ad una “interpretazione autentica” di ciò che il brano voleva significare. 

   Gabriel, per chi non lo sapesse, è anche un poeta. Non nel senso che siano mai state pubblicate sue poesie (non mi risulta, almeno per ora), ma ogni testo scritto da lui ha quella visionarietà e quella folle fantasia che di altri non possono essere se non di un vero poeta. E “rifare” in un'altra lingua una poesia di Gabriel non è roba per praticoni. Pertanto ho preferito (leggasi: sono stato costretto a) farne una traduzione più vicina ad un linguaggio in prosa piuttosto che in versi, una specie di breve monologo basato sulla “aspirazione profetica” avuta da Gabriel nello scrivere “Here Comes The Flood”.

   Come spiega il suo autore, il Diluvio di cui parla la canzone è ovviamente metaforico: nel 1977, anno di uscita, era già diverso tempo che si parlava (e/o si cantava) dell’avvento prossimo venturo della “Età dell’Acquario”, forse già in atto, almeno nelle speranze di molti. E forse non a caso Gabriel parla di Acque, di Mari, di Mondo Sommerso, tutto come contraltare alla mondo di “Carne e Sangue” ormai vecchio e smarrito  di cui l’essere umano è ancora prigioniero, vittima non incolpevole di quell’ ignoranza (e, perché no, ipocrisia) simboleggiata dalle Maschere di Attori dalle quali dovremo liberarci per rivelare  la nostra vera essenza. Acque, dunque: tutti soggetti in qualche modo senzienti ed agenti (le onde di acciaio che tirano chiodi verso il cielo), motivo per il quale li ho voluti trascrivere usando la lettera maiuscola . E il Diluvio, naturalmente: un Diluvio psichico, energetico, mentale, una sinergia di sinapsi capace di incendiare il cielo con un lampo, operata da coloro che, tra tutti gli altri, avrebbero ed avranno l’opportunità e la volontà di preparare le nuove Isole su cui si salverebbe una rinnovata Umanità.

    Gabriel (dichiarava lui stesso) era partito da una riflessione improvvisa avuta una sera in cui si accorse che, accendendo la radio al calar della notte, man mano aumentavano di numero le stazioni che potevano essere udite. Ciò creava per Gabriel una sorta di caos confuso nel quale  volle individuare una specie di “avvertimento”, forse un richiamo, un pre- allarme in grado di mettere in movimento colui che sa ascoltare ed interpretare i segnali provenienti da dimensioni sconosciute, e comunque
superiori, pronto ad accogliere ed immergersi in quel “Tempo Pasquale” (“Easterntide” è appunto la parola anglosassone che individua il periodo liturgico tra Pasqua e Pentecoste) dove Morte e Resurrezione si accompagnano e accompagnano l’Uomo nel suo necessario sacrificio di redenzione.
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When the night shows
the signals grow on radios
All the strange things
they come and go, as early warnings
Stranded starfish have no place to hide
still waiting for the swollen Easter tide
There's no point in direction we cannot
even choose a side.

I took the old track
the hollow shoulder, across the waters
On the tall cliffs
they were getting older, sons and daughters
The jaded underworld was riding high
Waves of steel hurled metal at the sky
and as the nail sunk in the cloud, the rain
was warm and soaked the crowd.




 Lord, here comes the flood
We'll say goodbye to flesh and blood
If again the seas are silent
in any still alive
It'll be those who gave their island to survive
Drink up, dreamers, you're running dry.


When the flood calls
You have no home, you have no walls
In the thunder crash
You're a thousand minds, within a flash
Don't be afraid to cry at what you see
The actors gone, there's only you and me
And if we break before the dawn, they'll
use up what we used to be.


Quando scende la notte, le stazioni radio crescono di numero, si possono sentire un sacco di strani segnali,  voci e rumori che vanno, vengono, e sembra che tutto sia lì per darci un qualche preavviso. Dal canto loro, le Stelle Marine spiaggiate  non hanno nessun posto dove nascondersi: possono solo starsene ad aspettare la Grassa Marea di Pasqua, mentre per noi è inutile darsi un qualsiasi riferimento, perché a quel punto non potremmo nemmeno scegliere da che lato metterci.

Presi il vecchio sentiero che attraversa le Acque, senza portarmi niente in spalla. Giunto in cima alle Alte Scogliere vidi che tutti, indifferentemente,  stavano invecchiando: i maschi come le femmine, e le figlie e i  figli con loro. Il Mondo Sommerso,  invece, stufo  e ormai al limite della sopportazione,  stava finalmente andando alla grande: con le sue Onde d’acciaio si era messo a scagliare pezzi di metallo contro il cielo, cosicché, al primo chiodo che riuscì ad affondarsi dentro una nuvola, ecco una pioggia, calda, sommergere tutti quanti...



Oddio! Il Diluvio! Possiamo dire addio alla nostra carne e al nostro sangue! E se mai i Mari volessero un giorno di nuovo tacere, troveranno ancora vivi solo coloro che seppero darsi un’Isola. Perciò bevete tutto fino alla fine, illusi, prima di inaridirvi!



Perché quando il Diluvio ci chiama, non c’è casa, non c’è muro che possa proteggerci. Esplode un tuono, e noi dobbiamo essere le mille Menti che hanno acceso il lampo. Non aver paura di piangere: ciò che vedrai sarà quel che di noi resta dopo che avremo smesso di fingere e recitare come attori.  E se saremo riusciti a farlo prima dell’alba, ciò che siamo stati prima non sarà mai più.

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mercoledì 22 giugno 2016

Priceless ("Hors de Prix") - Pierre Salvadori (Francia - 2006)

Immersi ognuno a suo modo nel lusso sfrenato e strafottente della Costa Azzurra, Irène (Audrey Tautou)  e Jean (Gad Elmaleh) sono rispettivamente: lei una spregiudicata cacciatrice di dote che batte (in senso lato) i sentieri della fascia agée dove le prede sono evidentemente più deboli e grasse, e dunque più facili da catturare; e lui un timido barman zelante e squattrinato, preda a sua volta dei capricci della ricca clientela e dei loro cagnolini annoiati e ben pettinati. Per via di un malinteso, del quale Jean, colpito come un fulmine dal fascino della ragazza, non è del tutto incolpevole, Irène, durante un fine serata deserto in cui è andata deserta anche la sua caccia alla volpe, scambia il barman per un ricco cliente dell’hotel, adescandolo di par suo, salvo accorgersi giusto il mattino seguente di aver preso il pesce sbagliato. Con lei prontamente in fuga, scatta l’inseguimento del già innamoratissimo Jean che ingaggia con lei una lotta evidentemente impari dove inizialmente, per riuscire a reggere il “ritmo” imposto della sua bella, il giovane barista deve dar fondo a tutti i suoi risparmi per sperare poi in  qualche ignota fortuna.
Con quell’abile fantasia birichina che il regista Pierre Salvadori saprà replicare (nonché notevolmente migliorare nello sviluppo degli intrecci) quattro anni dopo con “Beautiful Lies” (“De vrais mensonges” - 2010), la fortuna troverà il modo di aiutare l’audace giovanotto, nel frattempo scopertosi scaltro e furbo, nonché piacente e seduttivo, pronto a tuffarsi anche lui nel mare di soldi che bagna le coste francesi, questa volta (ma solo per amore, e solo per un attimo) non da misera sardina, ma da raro pesciolone pregiato, destinato a impreziosire qualche sontuosa ricetta di Haute Cuisine.
Certo che con il faccino (ed il talento, ovviamente) di Audrey Tautou tutto viene facile per il regista francese: non per niente sceglierà di nuovo la stessa Tautou per la sua successiva commedia. Ma anche per la figura maschile Salvadori ha buon naso, andando a pescare nell’aria spaesata e ingenua di  Gad Elmaleh un ottimo controcanto per gli acuti ultrasonici della protagonista femminile. I francesi, bisogna dirlo, sono abili nelle commedie: non a caso vengono scopiazzati spesso da cinema che evidentemente hanno meno fantasia: come quello italiano (vedi il clamoroso “Benvenuti al Nord” che ai nostri connazionali è bastato rigirare la cartina di geografia economica  per farlo diventare campione di incassi qualche stagione fa), o forse, più prosaicamente da  chi semplicemente decide di investire nel cinema molto meno risorse di quanto non facciano gli iper-produttivi francesi. Fatto sta che questo piccolo “Priceless” (“Hors de Prix” in originale, titolo naturalmente imbestialito dai nostri bestiali distributori con un “Ti va di pagare?” che, da solo,  farebbe passare la voglia di vederlo) è molto simpatico, con una buona dose di ironia, una favoletta allegra che si infila sotto i tunnel alpini entrando abbigliato di spensieratezza leggera  e, senza trucchi e senza inganni,  uscendone elegantemente travestito da favola moderna, con l’immancabile lieto fine dell’ex rospo che diventa principe e relativo “Vissero per sempre felici e contenti”. Senza nulla pagare, naturalmente.
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domenica 12 giugno 2016

De Vrais Mensonges - Perre Salvadori (Francia 2010)

   Tanto di cappello a questa sceneggiatura scritta a quattro mani da  Benoît Graffin e dallo stesso regista di origini tunisine Pierre Salvadori: “commedia dell’equivoco” non è sempre sinonimo di “divertente”, a parte il fatto che sapersi inventare gli equivoci non è cosa poi tanto facile. Ma in questo caso i due autori hanno saputo inanellare la serie di “Alcune Verissime Bugie” (meglio il titolo francese anziché quello internazionale  inglese) con una finezza intelligente e garbata che ha saputo andare al di là della semplice sequela degli equivoci, cospargendo un’abbondanza di piccoli dettagli per nulla irrilevanti e assolutamente  significativi per tutta la durata  del film, durata perfettamente calibrata nell’ora e tre quarti (penso ad esempio al dettaglio del foulard verde scampato per un attimo al destino della spazzatura, o alla  firma di “sentimenti anonimi” ripescata identica all’inizio nell’ultima bugia epistolare). 

   Salvadori ha inoltre saputo/potuto abilmente appoggiarsi ad un terzetto di protagonisti davvero encomiabili: Audrey Tatou (un viso che è un piccolo patrimonio del cinema), Emilie, sciocca pasticciona senza scrupoli che pure non riesce a tagliare i fili che la legano alla sua buffa innocenza; Nathalie Baye (Maddy), madre complicata e divinamente semplice nei molteplici cambi di registro che la sceneggiatura le richiede di operare (e anche qui si nasconde sapientemente una bugia...), Sami Bouajila (Jean), orgoglioso eroe  della vicenda, timido e in crisi, pronto a mettersi in discussione ogni volta (indimenticabile la sua cazziata in cinese nel salone di parrucchieria con non meglio spiegate interlocutrici asiatiche) e a rimodellarsi così come l’amore che lo sospinge gli chiede di fare.

   Certo, come ogni buona commedia degli equivoci richiede, qua e là la sceneggiatura ha bisogno di ricorrere a piccole incongruenze (tipo le suddette cinesi in parrucchieria), ma in un film come questo, dove ogni bugia è assolutamente veritiera, anche le incongruenze finiscono per passare inosservate. D’altra parte,  questo è proprio uno degli ingredienti principali  per cui, iniziando ad impastare una  “normale commedia degli equivoci” come  “De Vrais Mensonges”, possa essere alla fine sfornato un film davvero divertente.
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domenica 5 giugno 2016

Sueño de barrilete

- “Sueño de barrilete” (Testo e musica di Eladia Blázquez. Al link: incisione di Rubén Juárez del 1969. Libera traduzione/interpretazione del sottoscritto).

   “Già da piccino ero pieno di fantasia: sognavo di essere un aquilone che volava sempre più in alto, spinto tra le nuvole da un vento di speranza. Sono cresciuto dentro questa illusione semplicemente ascoltando il mio cuore, ancora non sapevo che la vita non è un giocattolo, e che gli ideali valgono niente come le banconote false.

   Dall’amore ho avuto solo delusioni, perché ho sempre preferito regalare il mio cuore anziché venderlo. Poi mi sono ostinato a scrivere versi senza rendermi conto che la vita è solo dolore scritto in prosa, e che la vita uccide tutte le cose migliori, maledetta vita! Questa fatica senza fine mi sta annientando, dentro di me si aprono ferite di continuo, e il sorriso di un tempo è andato in frantumi come un cristallo rotto...

   Mi chiedo dove sia finito il bambino di un tempo, quello che voleva essere un aquilone, quello che credeva che la vita sia qualcosa di più del solo lavorare per mangiare. Non so se mi sia venuta meno la fiducia, oppure la volontà, o se invece sia stato soltanto un vento cattivo  a tirarmi giù dalle nuvole, e a farmi risvegliare.”
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lunedì 23 maggio 2016

Memorie per Un Attimo

Di tutte le luminescenti immagini, testimonianze bellissime “dentro e fuori”, di cui si è riempito il mondo virtuale in questi giorni riguardo al film dell’amico Claudio Venanzini, oggi che si raffredda (e direi: “finalmente!”) il calore dei riflettori sulla vicenda, vorrei che l’immagine che metta fine... anzi no: che “dica ciao” a tutto quanto mi è successo per aver partecipato a questa impresa fosse invece questo piccolo selfie niente affatto professionale,  sul quale però è necessario prima dare una breve spiegazione:
durante tutte le riprese del film, la mia febbrile mente, sempre in preda a crisi adrenaliniche scomposte, ha avuto la necessità di punteggiare le varie fasi del nostro “lavoro” con alcuni brevi filmati  che mi facevo da solo al telefonino, poi condivisi con il gruppo del cast, in cui parodiavo quanto stava succedendo sul set  attraverso alcuni sciocchi siparietti in cui parlavo con “Ofiuco”, per l’occasione tramutato da costellazione in palloncino, in origine giallo e sorridente, e una volta sgonfiato quello e man mano che le fasi del film si facevano più drammatiche, sostituito da uno blu e dall’espressione piuttosto sconcertata. 

L’Ofiuco blu è poi sempre rimasto in camera mia, galleggiante e appoggiato nell’interspazio di due librerie, in attesa che anche a lui, come al suo predecessore sorridente, venisse a mancare il fiato necessario a sostenersi. E per me, che come orientamento religioso mi attribuisco quello di “mistico materialista”, non è stata una sorpresa scoprire che proprio questa mattina, l’ormai piccolissimo Ofiuco stava appoggiato a terra, disteso su un fianco, quasi chiedesse di poter dormire.
Ho lacrimato un po’ intanto che lo raccoglievo, per via di un’emozione che è difficile mettere nero su bianco, e che anche se non fosse così complicato farlo, forse sarebbe semplicemente più giusto non farlo, per rispetto verso quell’intimità sublime che può instaurarsi sorprendentemente con un semplice palloncino e con ciò che può arrivare a rappresentare.

“Solo per un attimo”, mi accorgo ora, non è soltanto il titolo del primo (credo per sempre unico) film nel quale, non so dove, ho trovato il coraggio (leggasi “faccia tosta”) di partecipare. E con un’accezione totalmente diversa da quella della battuta di Riccardo nel film, “solo per un attimo”, un attimo della cui eternità Riccardo non poteva sapere (ma io sì) è durata la ressa di emozioni, di benefiche paure, di trepidazioni un po’ infantili e pertanto più che sagge che mi hanno accompagnato dai primi giorni di quest’anno, quando sono cominciate le riprese del film, fino ad oggi, prima che un’orgia di affetti, di pacche sulle spalle, di sorrisi e di abbracci, di amicizie che neanch’io credevo, salutassero la proiezione di questo piccolo, grande lavoro nel quale ho sempre colpevolmente creduto  un po’ meno di quel meritava, e salutassero l’uscita di scena dell’io-Riccardo e del suo piccolo Ofiuco, Stelle per Caso e, appunto Solo per Un Attimo.
Grazie a tutti. 

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domenica 22 maggio 2016

Che vuoi che dica

Cosa vuoi che ti dica, non posso dir niente...
Da quando ho deciso
di non dire più niente di cattivo
mi manca la terra sotto i piedi,
perché la terra è cattiva,
e senza la cattiveria vengono a mancare
un sacco di argomenti.
Mi toccherebbe diventare un hare krishna,
ma mi ci vedi?
Tamburellar gaudente,
strabico e scomposto,
mentre con una mano tengo
un ninnolo buddista,
l’altra che osanna febbricitante al cielo,
e niente che possa reggere
un calice di birra?
Cosa vuoi che ti dica?
Sono già tutti innamorati di qualcun altro.
Che già, detta così, è cattiva,
e non va bene.
E allora?
Non ti ho cercato io.
Io stavo appeso alle mie
speranze benefiche di pace,
stiravo i miei stracci  intanto
che smaltivo la  sbornia
emotiva e fuori c’era il sole.
E’ vero:  mancava un pezzo.
E tu?

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sabato 7 maggio 2016

ElephanTango #03




Lei dice: “Portami…”. E tanto basta: “portami”.  Siamo abbracciati, eppure non basta, non  serve,  se a quella sua preghiera io non so rispondere. “Portami…” è un sussurro, è un segreto nascosto, un desiderio esigente, una necessità: “portami”.   



Dunque son io quello che va: contatto, la mano, l’introduzione, otto battute, la schiena dritta, e “portami”. Ma qual è la direzione, l’intento dei passi? Dove sto andando, io, di così grande, lontano, quale  promessa è mai  così importante tanto che lei possa implorare, e fieramente: “portami”, restandomi stretta?
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domenica 17 aprile 2016

ElephanTango #02

MilongAnnoZero (ELEPHANTANGO / 02) –




Ciao, parto.
Sono pur sempre un orfano,
e le fonti d’acqua non hanno genealogia.

Voi andate,
io seguo, dalla mia parte.
La sete ci riconoscerà, uno per uno,

distinguerà
pur senza fare nessuna
differenza. Limpida crudeltà del correre:

la polvere
è la giustizia ultima,
netta codifica nell’insabbiato solco
di un boleo. 
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martedì 12 aprile 2016

Bailarin Compadrito - Miguel Bucino, 1929

BAILARIN COMPADRITO –

Un vecchio classico del 1929 , testo e musica scritto da Miguel Bucino, dedicato a un ballerino che, iniziata la sua carriera nelle povere periferie di Buenos Aires, grazie al suo talento e alla sua ostinazione di vanitoso ragazzetto un po’ smargiasso, arriva a diventare un Maestro di tango ricco e famoso.

Anche quando non racconta di passioni amorose, la musica del tango è sempre struggente, evocativa, e sa riempire l’animo di chi la ascolta in pochissimi minuti e con pochissimi versi, forse proprio grazie alla sua magica capacità di sintesi, di un’emozione grandissima anche per le piccole cose della vita, quelle semplici, comuni, come l’amore, appunto. O del passare inesorabile del tempo, quando un vecchio e ricco signore di successo si guarda dentro lo specchio sfarzoso di un cabaret, e non può non  rimpiangere, intanto che sente risuonare una “Cumparsita”, quel birbantello squattrinato e ambizioso che era stato un tempo.

Libera traduzione, scevra da intenzioni letterarie. Incluso link audiovideo youtubbuto, non particolarmente pregevole dal punto di vista musicale/canoro, ma originale e dal vivo, e se non altro ricco di buona volontà coreografica e con due bravi ballerini sul palco.

Vestito come un dandy, capelli impomatati
e insieme a una ragazza carina più d’un fiore,
mentre balli in milonga ti dai  un sacco d’arie,
e ti esibisci facendo brillare la tua eleganza.

Qualcuno te l’aveva pur detto, vecchio birbante,
che un giorno saresti diventato il Re del Cabaret,
e che per insegnare i tuoi passi
avresti addirittura aperto un’Accademia.
E la Fortuna, che è Femmina, aiuta sempre i tenaci.

Ballerino sbruffone! che vanitoso muovevi i tuoi primi passi
in quella vecchia balera nella periferia del Barracas,
e ora, dopo aver rincorso  una nuova vita,
vieni a esibirti fino a Maipù!


Io lo so che quando senti suonare “La Cumparsita”
hai un tuffo al cuore, ricordandoti di come la ballavi
in maniche di camicia e senza un quattrino,
mentre ora lo stesso tango lo balli da gran signore.

Però daresti chissà cosa per poter ritornare
per un attimo quello sbruffoncello di un tempo,
perché certe volte la gloria è solo una seccatura,
e certe volte vedi solo un uomo vecchio e triste
dentro lo specchio del vecchio cabaret.
Vestido como un dandy, peinao a la gomina
y dueño de una mina más linda que una flor,
bailás en la milonga con aire de importancia,
luciendo tu elegancia y haciendo exhibición.

Cualquiera iba a decirte, che, reo de otros tiempos,
que un día llegarías a rey del cabaret,
que pa’ enseñar tu corte pondrías academia…
Al taura siempre premia la suerte que es mujer.


Bailarín compadrito,
que floriaste tu corte primero,
en el viejo bailongo orillero
de Barracas al sur.

Bailarín compadrito,
que quisiste probar otra vida,
y al lucir tu famosa corrida
te viniste al Maipú.

Araca, cuando a veces oís La Cumparsita
yo sé cómo palpita tu cuore al recordar
que un día lo bailaste de lengue y sin un mango
y ahora el mismo tango bailás hecho un bacán.

Pero algo vos darías por ser sólo un ratito
el mismo compadrito del tiempo que se fue,
pues cansa tanta gloria y un poco triste y viejo
te ves en el espejo del viejo cabaret.


















































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