martedì 29 novembre 2016

Snowden - Oliver Stone (Usa 2016)


I tempi della distribuzione italiana hanno fatto sì che, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, uscissero “Lo and Behold” e “Snowden”. Se Werner Herzog non era riuscito a metterci in guardia dalle insidie connesse (è proprio il caso di dirlo) alla globalizzazione della tecnologia, non poteva fallire Oliver Stone (almeno in questo intento) dando voce a corpo alla storia recente di Edward Snowden, l’uomo che ha fatto arrossire per un attino tutta la classe dirigente degli USA con le sue improvvise rivelazioni sullo spionaggio segreto informatico multilivello. Classe dirigente che, peraltro, dal Presidente Obama in giù non fece una piega davanti a questa cannonata e, con poche fiorettate di diplomazia, spedì il signor “No One” Snowden fino al confino volontario in Russia, dove risiede tutt’ora, probabilmente nemmeno più ricercato.

E non so se il monito principale di questa storia sia quello di riflettere su ciò che siamo diventati oggi tutti noi, entusiasti o anche solo forzatamente assuefatti della/alla nostra costante interconnessione full time, di renderci consapevoli che questa nuova modernità dalla quale non sapremo mai più tornare indietro non è solo una bella comodità, ma è anche la migliore trappola per topi che “Il Potere” abbia mai innescato nella storia dell’umanità, o non sia piuttosto quello di renderci consapevoli, se anche le rivelazioni di Snowden non sono riuscite a cambiare nulla,  che la partita è irrimediabilmente persa, e che forse (magra consolazione) possiamo anche smettere di lamentarci delle innocenti “Ads” con cui ci tormentano i vari gùgol ogni minuto, e cominciare ad essere consci del fatto che ogni minimo dettaglio, ogni nostra stupida foto delle vacanze, ogni tag, ogni like, ogni nostro click sulla tastiera è tracciato, conosciuto, eventualmente usato, dovesse servire,  anche contro di noi.
Per quel poco che so e ricordo di Oliver Stone, massiccio combattente di stampo comunista, probabilmente le intenzioni del film non erano queste: la rotta che il regista da alla vicenda non pare voglia virare verso la rassegnazione e, fino alla fine, la figura di Edward Snowden, che pure non viene affatto disegnata (molto opportunamente, direi) coi tratti dell’eroe, rimane quella di una persona disincantatamente idealista, che dubita pur senza esitare, e che comunque agisce e si adopera per una “giustizia” alla quale non si sa voglia davvero credere, ma alla quale tende quasi soltanto per un principio ineludibile di chissà quale Legge della Fisica: insieme pregio e difetto della sceneggiatura, è quello di non saper spiegare fino in fondo allo spettatore il “perché” Snowden abbia deciso ad un bel momento di vuotare il sacco, e men che meno (ma questo non può certo essere addebitato alla sceneggiatura realizzata da Stone) che cosa si aspettasse da questo suo agire.
Un po’ Harry Potter rubato alle favole (il bravo Joseph Gordon-Levitt gli somiglia), un po’ Braveheart, un po’, se vogliamo, anche uno di quei non-eroi da cui Werner Herzog avrebbe saputo trarre uno dei suoi magnifici documentari biografici se solo il personaggio non fosse stato così tanto esposto alle cronache mondiali, Snowden (persona)  ne esce in modo semplice, come fosse un qualunque bravo ragazzo, mentre “Snowden” (film) si lascia tutto sommato apprezzare grazie ad un mestiere che a Oliver Stone certo non manca (ho notato alcune fulminanti zummate brevissime che tendono a porre l’accento non so bene dove, ma che forse danno la cifra della beatitudine incantata e un po’ drogata in cui versano, ormai, galleggiando come una ninfea appassita, i vecchi comunisti come lui), e ad una scrittura filmica molto classica, saggiamente poco pretenziosa, come fosse semplicemente uno dei tanti articoli di giornale che riportarono dettagliatamente  dell’Affaire Snowden e coi quali, da Obama in giù (o in su), tutti i Potenti ci si sono puliti il culo (scusate, m’è  uscita...).  
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lunedì 28 novembre 2016

Toda mi Vida (José María Contursi/Anibal Troìlo)

Hoy despues de tanto tiempo
de no verte, de no hablarte,
ya cansado de buscarte
siempre... siempre...
Siento que me voy muriendo
por tu olvido lentamente
y en el frio de mi frente
tus besos no dejaras!

Se que mucho me has querido
tanto... tanto como yo!
Pero en cambio yo he sufrido
mucho... mucho mas que vos!
No se por que te perdi,
tampoco se cuando fue,
pero a tu lado deje
toda mi vida.
Y hoy que estas lejos de mi
y has conseguido olvidar,
soy un pasaje de tu vida...
nada mas!

Es tan poco lo que falta
para irme con la muerte...
Ya mis ojos no han de verte
nunca... nunca!
Y si un dia por mi culpa
una lagrima vertiste,
porque tanto me quisiste
se que me perdonaras!
Dopo tanto tempo che non
ti vedo, non ti parlo, ora
sono stanco di cercarti
sempre, sempre...
Mi hai dimenticato, e questo
mi sta facendo morire piano,
perché non lascerai più i tuoi
baci sulla mia fronte gelata.

So che mi hai amato tanto,
come io ho amato te.
Però io ho sofferto molto
più di te.
Non se perché e quando
ti ho perduto,
ma ho passato tutta la mia vita
accanto a te.
Ora sei lontana, hai voluto
dimenticarmi, per te sono
stato soltanto un episodio
della tua vita, nient’altro.

Ormai manca così poco
prima che io debba morire.
I miei occhi non ti
rivedranno mai più.
E se mai dovesse scenderti una lacrima intanto che ti ricorderai  del mio amore, so che mi perdonerai.




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giovedì 17 novembre 2016

Les Innocentes (Agnus Dei) - Anne Fontaine (Francia/Polonia 2016)




“Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai”
(Matteo 18, 1-5)
“La fede è fatta di 24 ore di dubbio per ogni minuto di speranza”.
(Suor Maria)



     L’approccio perfettamente laico alla questione “fede” è senz’altro il punto di forza di questo bellissimo “Les Innocentes” (perché in Italia “Agnus Dei”??... Mistero Doloroso!): le sconvolgenti incursioni degli eserciti prima tedesco, poi russo all’interno dello sperduto convento nella fredda Polonia del dicembre 1945, lasciano alle consorelle che lo abitano, oltre che sei o sette gravidanze per nulla attese, ben seri motivi per interrogarsi e di conseguenza interrogare lo spettatore sul significato della fede in Dio. 
   
Il manipolo di consorelle pensato dagli sceneggiatori (del quale fa parte la stessa regista Anne Fontaine) è di per sé una corale  testimonianza laica: nel piccolo microcosmo solo in apparenza separato dal mondo, ogni suora vive la sua esperienza in maniera differente: una teme l’inferno, una sorride divertita quando la dottoressa la visita toccandole il pancione, una si contorce disperata nel timore di contravvenire alla Regola, un’altra tace fino all’ultimo e partorisce sola, senza che nessuno nemmeno si sia mai accorto del suo stato, un’altra scopre di avere altrove (forse nel fumo di una sigaretta) la sua vera vocazione...  E alla testa di tutte loro la figura della badessa
(curioso, una sorta di contrappasso: Agata Kulesza, l’attrice che le dà corpo,  tre anni fa fu il contraltare, anche allora perdente, della novizia “Ida”, in un film altrettanto polacco e meraviglioso di Pawel Pawlikowski– non c’è da meravigliarsi, data l’ultra cattolicità della nazione, che ne escano tanti film di suore...-), l’unica la cui ostinazione per una fede vissuta come indiscutibile e monolitica la renderà incapace di trarre “il bene dal male”.
   

   
   Ma la figura che campeggia sopra ogni altra, a mio avviso, è quella di suor Maria, la vice badessa (una superba Agata Buzek), la cui fedeltà ai voti presi e agli obblighi da questi derivanti  non sono mai messi in discussione, ma sono casomai, alla luce degli eventi, stimolo di continua riflessione e di perpetuo interrogarsi;  la bella amicizia che finirà per legarla a Mathilde
(splendida e commovente la scena in cui Maria aiuta la dottoressa ad indossare un grazioso abitino rosso e nero, quello che lei stessa portava il giorno che entrò in convento, simbolo e retaggio di una razionalità e di una intelligenza che nessuna fede, per quanto grande e potente, ha potuto cancellare in lei) è di nuovo testimonianza di come il credere non sia mai un porto sicuro, un  punto di arrivo, ma sia un mare in continuo movimento dove, appunto, le giornate di chi crede in Dio “sono fatte di ventiquattr’ore di dubbio e di un minuto di speranza” (sua la battuta, all’interno del film).


    Del resto, anche sul versante non confessionale del cast, l’estrazione comunista di Mathilde (la dottoressa protagonista interpretata da una brava, ma a mio avviso non eccelsa Lou de Laâge), che fa il paio con la tormentata storia del dottor Samuel (Vincent Macaigne), un passato di ebreo intrappolato dentro gli orrori del ghetto di Varsavia e convinto che gli unici polacchi degni di rispetto siano ormai tutti morti dentro quegli orrori, la laicità è insita nel DNA originale, oppure vi è stata inoculata con la forza e la violenza della vita.


Lo scambio benefico e nutriente tra fede e razionalità è insomma la vera misura di questo film,  dove una giovane dottoressa comunista francese si convince ad aiutare le suore straniere solo  dopo aver intravisto tra i vetri la preghiera di una giovane novizia inginocchiata sulla  neve, dove la quota maschile, sia attraverso il suo portavoce principale (il già citato dottor Samuel, buono ma cinico, tenero ma prepotente, opportunista ma generoso),
sia dalla schiera di “fantasmi” uomini (è ripresa “fuori fuoco” la  soldataglia russa che irrompe sulla scena a metà film)è doverosamente minima e si traduce in un solo, semplice concetto, in contrasto sia con la fede, sia con la ragione: ambiguità.

   Anne Fontaine, anche avvalendosi di una splendida fotografia che definirei pacatamente poco sopra il bianco e nero (bianco è nero è l’abito delle suore...), tra silenzi ultraterreni e grida,  spesso con piccoli movimenti di camera appena percettibili quasi fossero opera intangibile dello Spirito Santo, con alcuni quadri magistrali di fuochi alternati (i migliori quelli riservati al duo Mathilde/Maria), in un film la cui unica pecca, a mio avviso, è quella di non aver saputo osare un po’ di più in termini temporali
(se alcune scene fossero state mantenute più a lungo, qualcuna delle tante emozioni che il film riserva fosse rimasta in scena un po’ di più, avremmo avuto un film forse meno “commerciabile”, ma di certo coraggiosamente pronto a spingersi verso e magari oltre le tre ore di durata, che credo non sarebbero state per nulla pesanti) fino ad una soluzione finale indovinatissima e felice, laddove (senza spoilerare alcunché),
potendo ragionevolmente asserire che i veri protagonisti siano in fondo i nuovi nati,  la “morale” del film può forse essere efficacemente sintetizzata dalla frase del Vangelo: “Se non ritornerete come bambini, non entrerete mai”. 

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lunedì 7 novembre 2016

Certain Women - Kelly Reichardt (USA 2016)

Certe donne, come Laura, avvocato (meglio: avvocata. E’ Laura Dern, quella che qualcuno: “Oh, sì, quella di Jurassic Park!”), non si capacitano: per mesi (otto), senza un sorriso, difendono una causa persa, persa da un uomo, un brav’uomo, innocente, ipovedente per colpa di certo libero mercato del lavoro. Lo difende senza speranza, è lei la prima a non dargli la speranza che sa (lei) di non potergli dare. Ma deve aspettare che arrivi un avvocato uomo, uno con la barba, quindi senz’altro uomo, prima che l’altro uomo, colpevole di troppa ingenuità ipovedente sin dall’inizio, possa rassegnarsi a quel che lei, avvocata donna, ha cercato di spiegargli senza verso per otto lunghi mesi, salvo protrarsi in generosità e attenzioni milkshakerate alla vaniglia, tipicamente femminili e quindi il più delle volte non dovute, dentro una prigione per soli uomini.

Certe donne hanno un marito. Anche questo con la barba, e che forse ogni tanto è stato amante di un’avvocata, giusto il tempo di impallarla mentre lei è inquadrata (piccolissima) dentro uno specchio tondo,  intanto che si rinfila (lui) le sue mutande spettinate da uomo. Queste si chiamano Williams, come un noto after-shave d’antica memoria. Michelle, di nome. E’ quell’attrice che, disponendo  della decima parte delle tette di Marylin Monroe, è stata l’unica ad avere il coraggio di accettare di recitare il ruolo di Marylin Monroe in un film, e che ci è riuscita come nessun’altra avrebbe saputo fare (non è un caso che la Reichardt l'abbia voluta più volte nei suoi film...). 

Certe donne come questa  (Michelle Williams è Gina, nel film), non capiscono perché tocchi sempre a lei fare la parte del cattivo (cioè, della cattiva). Poi le basta saper interpretare un attimo, spontaneamente, tradurre in umano e in un lampo  la risposta delle quaglie (“How are you? How are you?” domandano trillando i pennuti maschi. “I’m just fine! I’m just fine!” pigolano le loro femmine, nascoste tra l’erba e le pietre di arenaria), ed ecco che l’uomo/maschio le cede il passo, e i diritti, e le pietre. Ammirato, sorpreso,  nemmeno lui sa perchè.

A certe donne (come Lily Gladstone) non serve nemmeno un nome dentro il loro film, e costoro non sanno nulla di più dei loro cavalli, della fattoria, del trattore che guidano in mezzo alla neve e di quello strano cane quasi senza zampe che gli corre dietro come impazzito, delle balle di fieno, delle stalle, di una pelle che è sua, che è stata sua, e che è stata rossa molti Presidenti prima. Poi, una sera, entrano per caso in un aula di doposcuola, senza iscrizione, senza motivo, e forse più tardi, sopra un cavallo montato in due, si innamorano dell’insegnante che cavalca con loro seduta dietro, e che poi  scompare, e che rincorrono ostinate e disperate senza sapere nulla di cosa sia l’omosessualità, senza sapere nulla delle quattro ore d’auto che raggelano il cuore dopo il tepore di un fast food dove non si mangia nulla, dove c’è fame solo di sogni e di riscatto da non si sa cosa, prima di tornare senza un lamento alla loro vita fatta di cavalli e di strani cani
A certe donne, come Kelly Reichardt, che firma regia e sceneggiatura di questo sua nuova, splendida storia suddivisa in tre episodi, piacciono i treni, i luoghi con poca gente, la gente di poche parole. Loro inanellano perle di film, (Old Joy, Wend & Lucy, Meek’s Cutoff, Night Moves) che non si possono definire capolavori solo perché (sono sicuro) a loro per prime non piacerebbe una parola come “capolavoro”: a certe donne (forse a quasi tutte, sicuramente alla Reichardt) non credo interessi sfornare “capolavori”, questa è gente a cui piace lavorare, lavorare bene, e basta. 

 Anche stavolta nelle sale italiane il suo film non si vedrà. Non la si è vista mai, salvo qualche concessione festivaliera qua e là (Torino, Venezia) che puzza di presa in giro, che grida vendetta e maledizione. Ma forse certi pubblici non meritano tanta sublime modestia, tanto preziosa onestà e rettitudine di mestiere, tanta arte e raffinatezza d’animo, magari perché certe donne, in Italia, sono pronte a correre due/tre volte, pazze di Pazza  Gioia, a vedere (e pagando) le Ramazzottate Brunito-Tedesche firmate dai Beati Paoli Virzì, convinte di vedere al cinema qualcosa che abbia davvero Profumo di Donna, magari come quello raffermo e imbolsito della speriamo-non-presidente Clinton, e della sua America che a certe registe come la Reichardt riserva solo qualche ritaglio di attenzione il lunedì sera tardi.
Sveglia, signore e signorine: “Certain Women” dobbiamo esserlo noi per prime.
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