lunedì 14 dicembre 2015

Love & Mercy (Bill Pohlad) - Usa 2014

   La prima cosa che andrebbe apprezzata di questo film è l’efficienza del casting che ha saputo scovare in Paul Dano una sorprendente somiglianza col vero Brian Wilson, arrivando oltretutto ad usufruire del fatto che lo stesso Dano sa anche cantare e suonare il pianoforte piuttosto egregiamente, cosa che ha consentito al fortunato regista Bill Polhad di girare delle belle scene a tutto tondo in cui non fosse necessario separare le mani del pianista dai suoi primi piani. Al contrario di quanto accade invece nel caso di John Cusack  il quale ha in questa del pianoforte la sua unica, inevitabile limitazione, mentre per il resto, da suo non-estimatore, devo riconoscere  che offre qui un’interpretazione davvero pregevole di un personaggio davvero difficile da interpretare. 

   Gli  attori che danno vita ai due Brian Wilson (il giovane, in piena attività e circondato dal successo e al contempo alle prese con le difficoltà psicologiche innescate da un padre opportunista, dispotico ed egoista, e quello adulto, impegnato invece a difendere e ricostruire la sua emotività e la sua psiche messe a dura prova non certo solo dal successo) sono certamente i due capisaldi principali di “Love & Mercy”, brano di successo di Wilson già in carriera solista e titolo ben significante per tutto il lavoro di Polhad. 

   Ma va sicuramente sottolineata anche la straordinaria prova dei due attori non protagonisti i cui personaggi affiancano la vita del musicista: Paul Giamatti nel ruolo del mefistofelico dott. Landy che “pretenderebbe” di avere in cura il “presunto” schizo/paranoico Wilson, e ancor di più Elizabeth Banks (Melinda Ledbetter nel film e nella realtà), la donna che, battagliando con coraggio contro il suddetto sedicente dottore grazie ad un sentimento tenero e profondo che la coglie subito già dal primo incontro col  protagonista (meravigliosa la scena nel salone auto in cui Melinda vende una splendida Cadillac blu a Brian), stretta in un universo fatto completamente di maschi, si muove con una splendida miscela di  leggerezza e determinazione, delicatezza e polso fermo, sempre mossa dall’affetto (presto amore) per quell’uomo fragile ed indifeso (tanto più indifeso quanto più circondato da persone che pretenderebbero di difenderlo) che tratterà sempre con un rispetto ed una sensibilità resi davvero straordinariamente bene dalla Banks.

   Un film molto tenero, anche molto divertente (come non può essere divertente farsi accompagnare per tutto il tempo dalla musica dei Beach Boys, risposta americana e pertanto un po’ rozza ai contemporanei Beatles di oltreoceano...), dove Polhad cura molto bene ogni dettaglio in tutti i contesti, da quello strettamente musicale (ottime e brillanti tutte le scene negli studi di registrazione), a quello più intimista della vicenda amorosa tra Brian e Melinda (che sembra davvero rubata ad una favola moderna), a quello crudele e stonato di chi non ha mai saputo capire ed amare Brian (il padre) o ha cercato di trarne profitto (Il dottore e il suo entourage): il ritmo è sempre altissimo, le alternanze temporali tra il Wilson giovane e quello adulto è sempre puntuale, un tocco di coloritura “vintage” ogni tanto, pennellata bene e senza troppa piaggeria nei confronti degli inguaribili nostalgici, anzi forse più ad uso e consumo delle nuove generazioni (alle quali maggiormente consiglio la visione di questo film) che di Brian Wilson e dei Beach Boys non sanno nulla di più di quanto non gli abbia riferito per caso qualche spot pubblicitario o qualche sigla televisiva.

   Molte nomine/premi festivalieri su tutti i fronti (attori, sceneggiatura, regia... musica naturalmente, dove è significativo un premio per il vero Brian Wilson al Festival di Nashville...), un film che merita senz’altro di essere visto.


    Nota velenosa a margine: naturalmente, in lingua originale, a meno che non si vogliano far doppiare anche i Beach Boys, magari dal Trio Volo...
..

domenica 13 dicembre 2015

La Foto di Dora

Ora sei mia per sempre:
quattro per sei,
cornice

minuscola. Che gli occhi
di dosso mai
in eterno

mi leverai, rinchiusa
ora che sei
d’incanto

rimasta liberata.
Legato aversi
ormai...
--

domenica 6 dicembre 2015

All'Amica in Milonga

Vestiti d’aria, di capelli,
di quel respiro
azzurro
che ho sentito.

Vesti del tuo sfinito
correre, e ballare.

Vesti l’abbraccio del dare
e dell’avere,
del non sapere dove
e dopo
di  quale passo ti chiami
all’improvviso.

Vesti col riso,
ed ora.

Che già vorresti,
appena spento il ritmo, 
stancarti i piedi un’altra volta

e ancora.
-

mercoledì 2 dicembre 2015

Comfortably Numb - Pink Floyd (1979)

      
             



 ONE - Ohi... c’è nessuno in casa?
            Fai sì son la testa se mi senti, da bravo...
              Ti sento un po’ giù, accidenti!
                Potrei darti una mano, rimetterti in sesto.
                 Rilassati, e tanto per cominciare
                  dimmi dov’è che  ti fa male.

TWO - Tu non puoi farci proprio un cazzo...
              Sei come il pennacchio di fumo
                di una nave lontana, sull’orizzonte.
                  Muovi le labbra, sì
                    ma io non sento niente di quel che mi dici.
              Quand’ero piccolo stavo male,
                mi sentivo le mani come fossero due palloncini;
                  ora mi succede di nuovo,
                    ma come faccio a spiegartelo?
                      Cosa mai puoi capirne, tu,
                       di questa mia coscienza intorpidita?

ONE – Va bene, allora ti faccio giusto una punturina...
              Così non ti sentirai più.... (TWO- grida!),
                al massimo avrai un po’ di nausea.
                  Puoi tirarti su in piedi?
                    Di sicuro stai già meglio
                      e potrai tirare avanti con le tue cose. 
                        Dai, muoviti!   

TWO – Quand’ero piccolo, mi capitava una cosa strana:
               mi sembrava di intravedere qualcosa
                 con la coda dell’occhio.
             Ma appena giravo lo sguardo da quella parte
               tutto svaniva,
                 il sogno, la sensazione... spariva ogni cosa
                    prima ancora che riuscissi ad afferrarla.
              Adesso sono cresciuto,
               e quel bambino non c’è più,
                 ed anche quel sogno se n’è svanito chissà dove...
                   Adesso sono qui,
                     beatamente insensibile.     
    
             
              

..






domenica 15 novembre 2015

Libertango


 Oggi sono grato alle mie debolezze. Sia chiaro: non voglio adularle, né assecondarle, né dar loro troppo da mangiare o bere così che ingrassino e mi ostruiscano qualche arteria della Coscienza. Ma mentre intorno, in queste ore, tutto il mondo è spaventato dall’ultimo Babàu franzòso fornitogli preconfezionato dal Potere, io sono felice di aver paura solo di me stesso, del mio.

   Provo un romantico senso di compassione, amore, tolleranza, accettazione delle mie paure, dei miei limiti. Assisto benevolo alle mie piccole sconfitte, alle ritirate momentanee, alle quelle due lacrime che mi ritornano dentro dopo aver concimato il mio volto stanco e incresciuto, bevute e così piene di sapore. Son grato a quel paio di orecchie buffe che mi cammina dentro lo specchio cercando un ritmo, desiderando il volo di una donna - una per tutte - che non sa far volare,  son grato a chi le sa ascoltare, condividere e vivere con me, anche se solo per pochi istanti. Son grato a chi mi dice “aspetta”, son grato a chi mi dice “vai”, a chi mi lascia il suo numero così, senza sapere, tanto per le mie orecchie, forse.

   Dedico a tutti loro questa luminosa domenica di grigio, i tortellini buoni, il vino, un pasto solitario e di letizia, e quella cipolla che finalmente, senza patemi, posso. Dedico e condivido, leggero per come può volare, il basso panorama - eppure immenso - dell’umile tacchino frastornato, chiassoso e goffo, spaventato già dal primo rosso e in disperata cerca di un rifugio aperto, testone, sciocco,  ripieno di intimorita fiducia.

..

mercoledì 11 novembre 2015

Antipasto



Antipasto di vita mista
servito tardi e in fretta.
Gamberi biondi
una patata
un involtino di ricordi primavera
sedano rapa al curry
che a dirsi, e vedersi
fa ridere da solo.

Un antipasto tardivo
è di per sé un ossimoro:
va di traverso già prima ancora.
Figurarsi la cena poi
da soli e in piedi
con stretto tra le gambe il tovagliolo
non si sa mai
cadesse
una briciola di caldo
giù dal piatto.





Bone Tomahawk - S. Craig Zahler (USA 2015)



A metà tra l’horror e lo splatter e usando il western solo come pretesto, questo inquietante “Bone Tomahawk” è di piuttosto difficile catalogazione: immerso in un’atmosfera surreale già dalla prima parte, quella ambientata in una piccola comunità di frontiera nel lontanissimo ovest sperduta e marginale  dove poche anime, specie dopo che gli uomini se ne sono andati tutti con le mandrie, muovono blandamente la loro esistenza aggregate intorno ad un unico centro rappresentato da un silenzioso e “sospeso” saloon;  in un clima rarefatto (non privo di utili venature ironiche) dove ciò che dovrà accadere si insinua attraverso piccoli eventi striscianti nonché attraverso il presentarsi dei vari personaggi del film, ognuno a suo modo nient’affatto banale, nella seconda parte (dove il variegato quartetto di “cacciatori” si addentra in quella zona sconosciuta e desertica in cui nessuno osava mai mettere piede) il film accentua ulteriormente il senso di estraniamento, fino ad arrivare agli ultimi 30/40 minuti in cui la degenerazione visiva di frecce, scalpi, sangue di mostri e sbudellamenti vari finisce per prevalere con fin troppa veemenza, dando un sapore esageratamente disgustoso alla vicenda e di difficile (se non impossibile) sopportazione per occhi e anime troppo delicati.
Pieno di difetti non solo di sceneggiatura, ma soprattutto nel tentativo di caratterizzare, armonizzandoli in una logica comune, i quattro protagonisti del drappello di coraggiosi, “Bone Tomahawk” è comunque un film interessante pur nelle assurdità che inscena (quelle volute e quelle non volute), capace di catturare l’attenzione senza stancare troppo per oltre le due ore di durata, eccessivo (come già detto) nel finale,  dove l’ottima prova del cast (in primis quella di Kurt Russel nella parte dello sceriffo) contribuisce a farne apprezzare gli sforzi positivi di S. Craig Zahler, giovane e forse ancora inesperto  alla sua opera prima da regista e già conosciuto come direttore di fotografia (ottima anche qui anche se non firmata dal suddetto).
Decisamente inadatto ai minori di un tot quoziente di sopportazione gastrico/emotiva, ma a suo modo interessante.
...

lunedì 2 novembre 2015

Tango - Carlos Saura (Argentina 1998)

E’ piuttosto improbabile (ma non impossibile) che per chi non si trovi ad essere in qualche modo coinvolto nella pratica del tango  o quanto meno del “ballar nobile” (qualunque cosa ciò significhi, soprattutto considerando che le origini del tango argentino sono talmente popolari e povere che di più non si potrebbe...) questo film cult del non lontano 1998, che fu in competizione anche per l’Oscar ed ottenne numerosi riconoscimenti in Festival importanti anche grazie al nostro Storaro (Palma d’Oro a Cannes per la fotografia), possa  risultare interessante. L’invito a rispolverarlo è naturalmente rivolto a tutti, ma le quasi due ore del film sono talmente impregnate di quel ballo che il non esserne presi rischia davvero di addormentare. 
Se invece una qualche passione, sopita o manifesta, magica o terrena,  vi coinvolge per i passi del tango, allora qui siete a casa, e non potreste chiedere di meglio per i vostri occhi e per le vostre orecchie nelle due ore successive. 

Partendo da queste ultime, la colonna sonora è davvero entusiasmante: accanto ad alcune composizioni originali di Lalo Schifrin, gli arrangiamenti di alcuni tra i brani più classici (“El Choclo”, “La Yumba”, “La Cumparsita” ...) sono di una pregevolezza impareggiabile; e non saranno soltanto le esibizioni mozzafiato dei grandi ballerini che partecipano a questo film (a partire naturalmente da Juan Carlos Copes che mi dicono essere forse l’interprete più grande di tutti e del cui recente biopic che narra della sua relazione con Maria Nieves, firmato quest’anno da German Kral,  prodotto da Wim Wenders, temo che in Italia riusciremo a sentirne sì e no l’odore) o la sensualità insita nel tango e così ben riportata, per esempio, dalla protagonista femminile interpretata da Mia Maestro (dire attrice di lei è dire poco... vedasi come balla, o come canta...), ma saranno anche le prove del cast del “film nel film” ( piccola milonga semplice danzata al ritmo struggente e delicatissimo del pianoforte che, solo,  suona il tango-waltz  “Flores de Alma”),  o le sudate lezioni delle severissime scuole argentine dove il tango, più che essere una danza, pare essere un vero combattimento tra leoni, o le irruzioni improvvise della realtà crudele che fu dell’Argentina dei “desaparecidos” coreografate con scene e luci da brivido, a far apprezzare questo film. Che dire, ad esempio, delle prove di danza dei bambini? Che “Tango” e “Argentina” sono una cosa sola? Cos’altro dire davanti a questi frugoletti timidi o sanguigni che si muovono come farfalle e sono pronte, accoppiandosi,  a diventare quel “Mostro a Quattro Gambe” (come qualcuno definisce il tango) con una naturalezza disarmante?

Poco o nulla: si potrebbero fare alcune piccole obiezioni, come sull’inadeguatezza quasi fantozziana di Miguel Ángel Solá come attore protagonista, o sulle vicende “quadrate” degli intrecci amoroso/mafiosi che contribuiscono alla trama, ma davvero ogni cosa viene seppellita in primis dal tango, e poi dalla maestria di Saura che sa cogliere ogni aspetto, inquadrare ogni cosa, dai piedi agli sguardi  incrociati in primo piano dei danzatori, dagli impeti di passione della danza e dalle allucinazione che procura, ai chiaroscuri in controluce del “finto set”, dando a questo film un passaporto universale che può valere, buona volontà permettendo, anche per chi col tango non ha nessuna o poca (come nel mio caso) confidenza.
..


venerdì 30 ottobre 2015

Dreadlock Holiday - 10cc

Me ne andavo in giro tranquillo
badando solo a non farmi male,
quando ho sentito una voce cupa dietro di me
che mi ha fatto saltare dallo spavento.
Mi giro, quattro ceffi usciti da chissà dove,
che prima mi squadrano dalla testa ai piedi,
e poi si mettono a parlottare tra loro...

E io gli faccio: “Non mi piace il cricket:
io adoro il cricket
Non fraintendetemi, portatemi rispetto.
Non fraintendetemi, perchè non avete ancora sentito niente.”

Così, quello butta l’occhio sulla mia catenina d’argento
e mi fa: “Ti do un dollaro”.
Gli faccio “Vuoi scherzare, amico?
E’ un regalo di mia madre”.
E lui: “Mi piace, la voglio. Te la strappo di dosso,
così ti penti di avermi incontrato.
Faresti meglio a renderti conto che non sei un cazzo,
che sei solo, e sei lontano da casa”.

E io gli faccio: “Non mi piace il reggae:
io adoro il reggae.
Non mettermi il bastone tra le ruote,
e non fraintendermi, perché non hai ancora sentito niente”.

Allora corro a tuffarmi nella piscina piena di Pinacolada.
Dietro, di nuovo una voce scura che mi fa:
“Ti va di provare qualcosa di più forte?
Ce l’ho, se vuoi. Il mio Paradiso è il migliore.
Vuoi farti una bella vacanza Rasta? ”.


E io le faccio: “Non mi piace la Jamaica:
io adoro la Jamaica. E non fraintendermi,
perché ancora non ti ho detto niente...”

-
-

mercoledì 14 ottobre 2015

Genitori - Alberto Fasulo (Ita 2015)

    L’equidistanza non necessariamente corrisponde all’equilibrio, e il “mezzo” in cui, con encomiabile sforzo, cerca di porsi Fasulo per voler non essere né troppo universale, né  troppo personale, finisce per assomigliare più che altro ad un “tiepido” scarsamente emotivo.  Poco commuove e coinvolge, e nemmeno troppa solidarietà umana suscita un collettivo di genitori e parenti di disabili con i quali il regista/autore sceglie di interloquire attraverso un distacco asettico che finisce per non spiegare il dramma, per non svelare il dolore, posizionandosi con insana e diseducativa prudenza dietro un “politically/healthly correct” che, non volendo rigirare il coltello nella piaga, finisce per non dire e illustrare quasi nulla della piaga stessa. Emblematico il dibattito iniziale sulla sessualità dei disabili (dire “disabili” è poco, l’universo immagino sia vastissimo e variegato), quasi chiacchiere da circolo di burraco, un accenno alle responsabilità della cultura cattolica presto driblato con poco encomiabile prontezza.
    Fatta eccezione forse solo per un paio dei partecipanti al collettivo, Fasulo non riesce a spremere pathos, ma questo forse non è un male: forse non lo voleva. Però non riesce neppure, né in spettatori al di fuori dell’ambito in cui si muove il tema del film (come me), né  in qualche caso rivolgendosi direttamente agli operatori del settore, ad entrare nel sangue: la camera costantemente  posizionata a pochi centimetri dai nasi “sfiora” e basta, ma non tocca, bussa senza entrare, non ha il coraggio (non vuole averlo?) di farsi avanti, di denudare, di lanciare l’urlo… Sussurra a mezza voce, come nel finale “politico” del gruppetto dei protagonisti alle prese col sindaco, dove l’ipocrisia delle istituzioni che stringono mani dopo le loro promesse palesemente vane, inscenata anch’essa in maniera “politically correct”, finisce per abbagliare anche i migliori critici, che credono di vedere in questo manipolo di fortissimi deboli, di ultimi in prima fila, un “gruppo di potere” inesistente, senza trovare il coraggio di guardare negli occhi e riconoscere in costoro un cenacolo di santi beatamente soli, alle prese con il loro destino.
...

venerdì 2 ottobre 2015

Eccomi


Eccomi, e ritorna.
Era gi
à stata la magia dOttobre,
il passo acerbo e fragile
a dare il via alle danze.

Ritorna, ed eccomi,
goffo d’amore antico,
insaporito
frutto da masticare.


---

Natural Born Killers - Olier Stone (USA 1994)

Lupi, serpenti, aquile, scorpioni…. Tutti animali “Assassini Nati per Natura” nelle inquadrature introduttive di questo film inquietante e ad alto tasso di disturbo emotivo. La specie umana, “Naturalmente”, non è da meno, e le inquietanti fattezze di due attori  che personalmente considero due “piccoli fuori serie” come Woody Harrelson e Juliette Lewis sono la miglior rappresentazione visiva possibile di questa disturbante realtà. Sempre che di realtà Oliver Stone (basandosi su una scrittura di Tarantino, che più Tarantino di così non si può, nonostante la sua sconfessione non appena apprese le intenzioni del regista…) abbia voluto davvero parlare: dall’utilizzazione smisurata del Kroma-key, fino alla svilente valenza mediatica di quella che avrebbe dovuto e potuto essere una bella e semplice storia d’amore romantica e fatale (si fa per dire...), benedetta dalle Stelle e dagli Angeli del Cielo, auto certificata nella splendida scena del matrimonio “fai-da-te-“ sottoscritto con tanto di patto di sangue tra due anime nate belle e ferite, che hanno avuto la (s)fortuna di incontrarsi e riconoscersi, Oliver Stone patteggia sia col demonio metafisico, sia coi demoni del giornalismo trash una verità inafferrabile, raggiunta e però subito rispedita in corner con la figura centrata (e centrale) dell’indiano-sciamano che i self-made coniugi Knox trucidano per quella che sarà la loro unica, vera e irripetibile esperienza di responsabilità cosciente (“Cattivo! Cattivo!” gli grida lei….).
Tutto il resto del racconto è puro genio/follia tarantiniana, e divertimento, se così si può dire… Certamente, i primi venti minuti del film, vale a dire la scena della prima mattanza nel bar dove Mallory/Lewis balla sensualissima per le prime malcapitate vittime, nonché il successivo racconto di come i due si siano conosciuti (filmato a mo’ di sit-com tutta risatine finte del finto pubblico), sono uno spicchio di cinema indimenticabili e destinati ad essere “cult” per sempre. Nell’ora e quaranta successive, Stone ci inonda a dismisura con cambi di colorazione, alternanza di filigrana, inquadrature per traverso e con sfondi finti che si accavallano e affiancano frenetici le scene, il tutto rigorosamente condito dall’inaudita violenza con cui i due “angioletti” malati di tristezza (parola di sciamano...) insaporiscono la loro esistenza. E così ecco un bambolina rossa volare giù dal ponte nella panavisione in bianco e nero, inserti di cartoon cibernetico o mitologico, draghi e robot killer, indiani pellerossa decolorati che cavalcano a fianco all’auto sportiva, volti improvvisamente distorti dalla liquida entità malvagia che li possiede... Il tutto forse con una sovrabbondanza alla fine tutto sommato inutile, o quanto meno evitabile, o quanto meno poco sensata: la storia, che prosegue poi con l’arresto dei due e la vicenda carceraria che ne segue, andando verso la conclusiva rivolta tribale dei detenuti, forse non aveva bisogno di tanta ridondanza, anche perché già arricchita con l’innesto di due personaggi minori (il poliziotto maniaco che riuscirà a catturarli e il direttore del carcere, vale a dire Tom Sizemore e Tommy Lee Jones, e scusate se è poco) la cui caratterizzazione è in entrambe i casi assolutamente irresistibile (specie nel caso di Jones). Ho  trovato invece sovrautilizzata la figura del giornalista televisivo interpretato da Robert Downey Junior, forse perché mi ostino a (ri)vedere sempre questo film come una “movimentata” storia d’amore piuttosto che come un film sociale, di denuncia dei metodi invadenti e grotteschi dei mass media nella società americana, mentre invece non condivido le critiche di chi vede in tanta celebrata violenza come una sorta di involontaria istigazione  alla violenza stessa (i due protagonisti “eroicizzati” dai fans), ritenendo che la quantità di ironia che Stone ha saputo inserire nello spazio del film (come d’altra parte fa sempre anche Quentin Tarantino nei suoi film) sia di per sé più che sufficiente come controprova e come garanzia di sane intenzioni civiche.
...

martedì 22 settembre 2015

La Volpe - Ivano Fossati

Passando attraverso una serie di figure preposte ad attivarne l’attenzione e poi a tentare di confonderne la coscienza (il cane che ritorna, la luna fra le piante, l’amico che è venuto), l’io narrante (anzi: cantante) di questo splendido brano di Ivano Fossati è destinato all’incontro con quell’attimo cruciale presente prima o poi nella vita di (quasi) ognuno di noi quando, come la volpe sorpresa dall’arrivo dell’inverno si capisce improvvisamente vulnerabile ed incapace di sopravvivere senza prima prepararsi una tana sicura, così l’uomo dovrà presto o tardi, e col passare delle stagioni (con quel “sarà” dell’ultima strofa che perde il punto di domanda, diventando affermativo),  rendersi conto di non poter più bastare da solo a sé stesso, di dover abbandonare la baldanza della propria illusoria autosufficienza, accogliendo con riconoscenza l’amore dell’altro che ha finalmente trovato la strada, univo vero rifugio salvifico dove potersi adagiare con fiducia e confortevole serenità, e trovando infine quella necessaria completezza di sé percepita come imprescindibile. La struggente versione live del brano è altamente consigliata. 


                       - La Volpe -

Che sarà quell'ombra in fondo al viale di casa mia
Che sarà quell'ombra in fondo al viale di casa mia
Sarà il cane che ritorna, ma il cane non è
Sarà il cane che ritorna, ma il cane non è

Che sarà quell'ombra in fondo al viale di casa mia
Che sarà quell'ombra in fondo al viale di casa mia
Sarà la luna fra le piante “malaluna”
Sarà la luna fra le piante “malaluna”
Sarà la luna fra le piante, ma la luna non è
Sarà la luna fra le piante, ma la luna non è

Che sarà quell'ombra sulla strada di casa mia
Che sarà quell'ombra sulla strada di casa mia
Sarà un amico che ha allungato la strada sarà
Sarà un amico che ha allungato la strada sarà
Sarà un amico che è arrivato, ma un amico non è
Sarà un amico che è arrivato, ma un amico non è

Che sarà quell'ombra sulla strada
Che sarà quell'ombra sulla strada
Sarà la volpe quando viene l'inverno sarà
Sarà la volpe quando viene l'inverno sarà
Sarà la volpe quando viene, ma la volpe non è
Sarà la volpe quando viene, ma la volpe non è

Sarà il mio amore che ha trovato la strada
Sarà il mio amore che ha trovato la strada
Come la volpe quando viene l'inverno sarà
Come la volpe quando viene l'inverno
Sarà.




.


giovedì 17 settembre 2015

Contro-Metamorfosi

   Adesso bisogna che metta via quelle sigarette: il cuore ha ben altro da fare stamattina che non sia pompare l’ossigeno rarefatto.
Non mi succede mai che abbia paura a scendere dal letto: di solito, quando mi aspettano giorni con prove difficili, così come quando so che mi aspetta una giornata ricca e serena, scrollati rapidamente via i primi immancabili capricci dell’età delle mie ossa, salto veloce sopra le mie ciabatte e parto spedito verso il primo carezzevole caffè, sia quel che sia. 

   Oggi non è né l’uno, né l’altra. E’ solo che stamattina non c’ero io nel mio letto… Dopo una notte quasi insonne, dove ho potuto vegliare, sudando mille e un pensiero, e i miei occhi aperti nel buio hanno visto spuntare dal mio corpo in tempo reale ogni zampetta,  ogni antenna, hanno visto “il ventre diventare convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati”, la paura mi ha tenuto su un fianco, poi sull’altro, poi sulla schiena per quasi mezz’ora.
   
   Alla fine sono sceso, finalmente, atterrando sulle mie ciabatte; e la paura, anche se non svanita, è diventata sopportabile, quasi un’amica, perché al contrario di quanto accaduto al povero Gregor Samsa scritto da Kafka, il mostro che ho visto allo specchio dopo aver preso il primo caffè è bello, è davvero molto bello.
E adesso… fumo.

..



sabato 5 settembre 2015

Chiedi

Chiedimelo con gli occhi,
le mani
col taglio del passo che scarta, improvviso,
verso destra.
Chiedi muovendo il bicchiere,
la piccola cianfrusaglia,
spostando
il tappo – incosciente –
di bottiglia che ci separa.
Chiedimelo col buio,
ma domani.
Chiedimelo col suono che arrivi
non tuo
per ridestarmi.
Chiedimelo disarmata, disadorna, nuda.
Hai tanti di quei capelli...
Quella domanda
sciocca e difficile,
- un gesto –
fammela
scostandoti i capelli.


 ---

giovedì 3 settembre 2015

Il Silenzio

Io accarezzo il silenzio.
Il silenzio -
che mi spedisci –
tu.
La prontezza
della tua assenza
la assaporo -
la mancanza -
qui
nel pieno del petto
vuoto,
la sorseggio
come un vino difficile,
te la dono
come una mano grande
aperta
sotto la pioggia.

                        (Chandra Livia Candiani)
--

sabato 29 agosto 2015

Luna d'Agosto


Tra un plenilunio e l’altro
a volte passano trent’anni:
le sfere rallentano, come fossero una giostra,
dentro un mese circolare, già sembrato breve.

E così, tornato il giro, ti ritrovi sopra il mare,
volante,
una bottiglia di vino rosso, una gattina nera,
stretto
l’abbraccio di un piccolo cuscino.


Nessuna meraviglia, in cielo,
nessuna meraviglia:
è solo il conosciuto
fresco, chiarore amato, il dilatato
morso che spinge al passo
di nuovo
cento cavallini colorati.


-

mercoledì 26 agosto 2015

Far From The Madding Crowd - Thomas Vinterberg (USA/UK 2015)

“E' difficile, per una donna, definire i suoi sentimenti in una lingua creata dagli uomini per esprimere i loro”.

   “Far From The Madding Crowd”, nonostante quanto sopra da esso stesso enunciato, nasce per mano di un uomo (Thomas Hardy), nel filone della monumentale/melodrammatica letteratura britannica ottocentesca che non ho mai avuto la fortuna di frequentare, ammesso che sfortuna sia. Ho invece avuto la fortuna di incontrare il suo corrispettivo cinematografico (versione 2015), confezionato dalle mani di uno dei miei registi preferiti (Thomas Vinterberg, uomo), il quale ha ritenuto meravigliosamente opportuno affidarne gesta e  speranze alla mia attrice ancor più preferita (Carey Mulligan, donna), mai vista, sino ad ora, meno all’altezza della volta prima.

   Anno 1870 - Bathsheba Everdene (lo racconta essa stessa nell’incipit) è un nome strano, che non le è mai piaciuto. Orfana e sola, cresce auto fortificandosi, indipendente, apparentemente libera ma in realtà circondata da una nuvola di ghiaccio della quale ignora ogni cosa, nelle rigogliose campagne britanniche dove incontra subito, senza essere in grado di riconoscerlo, il grande amore; il quale amore (impersonificato da Matthias Schoenaerts/ Gabriel Oak), un giovane dotato e risoluto, almeno sul lavoro, la chiede subito in sposa (precipitosamente, direbbe qualcuno di mia conoscenza...).
“Non mi dispiacerebbe essere una sposa, se solo ciò non comportasse il dover prendere marito”: questa è la sciocca risposta (ma mica tanto...) che da’ Bathsheba a Gabriel. Non è un sì, non è un no (ma è comunque ascrivibile come rifiuto, o quanto meno non accettazione), ed è soprattutto quella costante rivendicazione di autonomia di “bastante a se stessa” che tratteggerà il carattere della ragazza, e al tempo stesso la cortina di gelo dietro cui si nasconderà con fierezza la dolce e fragile Bathsheba per gran parte della vicenda. 

   Ben presto, due eventi fatali travolgeranno i due giovani spingendoli in direzioni opposte e contrarie (il cane pastore di Gabriel, in un raptus di follia notturno, spingerà tutto il suo gregge di pecore a gettarsi in un burrone provocando la rovina economica del suo padrone, mentre Bathsheba erediterà tutta una grande e prestigiosa fattoria dallo zio defunto) unendoli in un destino che vorrà lei nel ruolo di “Signora” e lui in quello di umile e fedele salariato. In realtà, l’amore mai sopito che alberga nascosto nel cuore di Gabriel (e  -lei ancora non lo sa-  anche in quello di Bathsheba), faranno di lui una sorta di Angelo Custode sempre presente e vigile nella vita dell’ormai ricca e stimata possidente, a cominciare da quei difficili esordi nel mondo del commercio su larga scala (magnifica la scena della prima volta in cui Bathsheba si reca con la sua assistente al mercato delle granaglie, unica donna -mai vista una, prima d’ora, in tale contesto!- perfettamente snobbata da tutti gli uomini presenti), fino a tutti i tormenti e i dubbi amorosi che attraverseranno lo spirito della ragazza, certamente oggetto del desiderio non soltanto del suo fido “pastore”.

   Dopo aver declinato anche la lusinghiera e teoricamente irrifiutabile offerta di matrimonio di William Boldwood (Michael Sheen), un ricchissimo proprietario terriero di mezza età rimasto volutamente scapolo dopo una cocente delusione d’amore di gioventù, Bathsheba incontrerà però la spada che farà breccia nelle sue eterne resistenze: sarà il sergente Francis Troy (Tom Sturridge) colui che per primo troverà la chiave per raggiungere il suo cuore, una chiave elementare, un vero “Uovo di Colombo”: tutti (tanti) l’avevano sempre e semplicemente chiesta in sposa, ma mai nessuno, prima dell’ardito sergente, le aveva detto semplicemente detto così, direttamente, senza mezze parole, quanto fosse bella. Scatta così in Bathsheba quel meccanismo primordiale e magico che la porterà alla sciagurata scelta di un (finalmente) marito che tutto potrà fare (dall’iniziare a dilapidarne il patrimonio al gioco, fino al riavvicinarsi ad una sua vecchia fiamma mai scordata, e rincontrata per caso ad un mercato) tranne che renderla felice.

   La vicenda (e con essa il film, sulla cui descrizione non mi dilungo oltre, anche per non pervenire ad antipatici spoiler), ricchissima di punti cardine, di  crocevia dirimenti, di coincidenze fatali, di incontri e scontri tra i vari personaggi (di pregio e particolare raffinatezza il rapporto di reciproco rispetto e stima, unita ad un’inevitabile rivalità che coinvolge Gabriel ed il ricco Boldwood, entrambe onestamente innamorati di lei) è una di quelle alle quali, magari anche dimenticandosi per un attimo tutte le considerazioni tecnico-artistiche sulle quali ogni buon dilettante cinefilo come me ama indugiare davanti ad un bel film, è soprattutto bello ed importante abbandonarsi, farsi raccontare, vedere ed ascoltare come un bambino ascolta una favola (si può forse dire che “Far From The Madding Crowd” non sia una favola?!), tanto più che l’estrema dolcezza che emanano e la tenerezza  che suscitano entrambe i protagonisti con le loro infinite schermaglie accompagna per mano ogni spettatore, su di un tappeto di struggenti violini stesi al sole insieme alle verdi campagne inglesi, verso il vero, unico finale che ogni bambino vorrebbe avere dalle sue favole preferite.

   Felice incursione di Vinterberg (già ruvido regista danese della galassia “Dogma”) in un genere per lui nuovo. Da vedere rigorosamente in versione originale casomai sottotitolata, non fosse altro per la musica dall’accento londinese che esce ad ogni parola pronunciata dalle splendide labbra di Carey Mulligan (su questo non sono obbiettivo, lo so. E non me ne scuso neppure...).
...



venerdì 21 agosto 2015

Automata - Gabe Ibáñez (Spagna 2014)

Si potrebbe dire: “Quando una scimmia con la pistola incontra una scimmia col fucile, la scimmia con la pistola è una scimmia morta.”
Specie se c’è di mezzo una tartaruga.
“Automata” azzarda, e lo fa col piglio giusto. I “Pilgrim 7000” nascono nella finzione scenica voluta dagli autori del film come robot creati dall’uomo per difendere gli stessi uomini dai pericoli provenienti dal Cielo, in base ai protocolli classici che già furono di Isaac Asimov. Si riveleranno invece come un’umanità parallela, e più forte, forse perché esentati dal condividere le sorti di coloro che “Sono Nati” (leggasi: “Nati dal Cielo”), forse perché avranno avuto l’umiltà e l’intelligenza (tutta virtuale) di riconoscere che ogni e qualunque umanità non può avere il dio che si crede, bensì solo quello che riesce (e con fatica e sacrificio) a costruirsi e a darsi, fosse anche solo in forma di abbozzo di tartaruga cibernetica (peraltro ispirata a quelle umane, quelle che si tuffano nell’oceano per scomparire per sempre alla vista di chi ha la pretesa di possederle).
Eva di se stessa,  Cleo (il Pigrim 7000 protagonista del film,  conformato in fattezze di prostituta), forte del suo “biokernel” conduce il (non) suo Adamo/Banderas verso l’ingresso di (non la cacciata da) un nuovo Eden ancora tutto da bonificare (lasciato all’immaginazione dello spettatore, trascorsi i titoli di coda...), attraverso i pericoli delle tentazioni di un’umanità ormai prostrata, boccheggiante, fallita, a tratti ancora nobile d’animo e di intenti (felicissimo e prezioso il cameo della sempre bellissima Melanie Griffith, madame Banderas, contro la quale strali ingenerosi,  grossolani e irripetibili vedo riversarsi da parte della critica, nella parte della dottoressa Duprè),  a tratti ancora fertile e generosa (la vicenda intima e familiare della paternità del protagonista), ma sostanzialmente desertificata e divenuta ormai definitivamente inabitabile.
“Automata” potrebbe essere considerato a buon diritto un’eccellente versione riveduta e corretta de “Il Pianeta delle Scimmie” di quasi quarant’anni or sono. Da non esperto (e non frequentatore) del genere, non so dire quanti  neo- “Pianeti delle Scimmie” siano stati proposti in questo abbondante lasso di tempo; ma di certo (escluse le virgole, tipo il Banderas che meglio di lui ce n’erano un centinaio, o le intermittenti, stonate pennellate melò che sembrano –ahimè- imprescindibili nella filmografia tarhgettizzata USA, anche se Made in Spain), quest’opera di Gabe Ibáñez è altamente coinvolgente, strutturato in due fasi principali (la prima thriller-cittadina, la seconda ambientata  in un affascinante deserto radioattivo ricco di suspense), accompagnato da musiche/sonorità ritmate altamente adrenaliniche (tolte quelle sdolcinatamente melò) e da una scenografia/effetti speciali volutamente (credo, volutamente, essendo il regista grande esperto di effetti speciali) tenuti su scala di grigio e a quota di volo medio bassa, per meglio rendere il concetto di un futuro regressivo  voluto dalle didascalie che ci introducono alla vicenda.
Un bel film.
....