lunedì 22 dicembre 2014

Old Joy - Kelly Reichardt (USA 2006)

   
 C’è un che di disarmante nel modo che ha Kelly Reichardt di proporre i suoi lavori, disarmante ed entusiasmante insieme: da una parte, coloro che ad un film, alla storia che racconta, al susseguirsi degli eventi chiede spassionatamente “qualcosa”, che accada “qualcosa”, che gli venga offerto un susseguirsi di “qualcosa”, davanti a film come questo “Old Joy” (come sarà poi anche due anni più tardi col bellissimo “Wendy & Lucy”) rischiano di rimanere spiazzati, paradossalmente confusi, spesso e volentieri tristemente annoiati. Dall’altra, coloro che hanno la capacità e la pazienza di accorgersi di come tutto ciò che si vuole far accadere (e sono personalmente convinto che non sia affatto poco) accada “dentro” i personaggi, nascostamente, preziosamente racchiuso in pochi, piccoli gesti ben inquadrati (un cenno del capo, un saluto fugace, una stretta di mano), trovano certamente in questa regista della Florida, agganciata a quel circuito definito come “indipendente” ed a firme che accompagnano i suoi lavori del calibro di Todd Haynes (solo per dirne una), una fonte preziosissima di sano intrattenimento.

    Sembra che non accada nulla di importante nella “scampagnata” tra i boschi di Kurt e Mark, due vecchi amici molto diversi tra loro, che rimpiangono la “Gioia che fu” di quando ancora circolavano i dischi in vinile e al posto delle yogurterie moderne c’erano le botteghe di commercio alternativo dei loro vecchi commilitoni, oggi spostatosi su E-Bay. Invece c’è il continuo interrogarsi dei due, la costante riflessione su ciò che sono e su come lo sono diventati, attraverso il continuo specchiarsi reciproco dentro una relazione che è sì quella di due amici sinceramente affezionati l’uno all’altro, ma che è anche altamente critica, mai indolente o autoreferenziata, sempre pronta ad incendiarsi non di astio, né di rancore (non potrebbero, essendo amici), ma di una pressante esigenza di capire se stessi anche e soprattutto attraverso l’altro. Che non è affatto comodo, né facile, perché i due, sinceramente amici, ricevono continuamente dall’altro il segnale che c’è “qualcosa che non va”, che la loro amicizia non ha ancora, dopo tanto tempo che si conoscono, tutti i requisiti per potersi definire completa, incondizionata. L’amicizia non è ancora tradotta in fiducia, e forse neppure in stima, è ciò richiede ai due uno sforzo eccezionale, che è poi il senso ultimo del film: in questo, altamente esplicativa, è la scena verso il finale in cui Kurt si avvicina a Mark per fargli un massaggio rilassante, e Mark cade in preda ad inspiegabili tensioni piene di tutta la contraddizione che pervade l’intera vicenda, e stenta (per poi riuscirvi) ad abbandonarsi tra le mani del suo amico. A questo climax, accompagnati dalla piccola cagnetta Lucy che, sempre col suo vero nome di Lucy sarà poi la co-protagonista del film successivo della Reichardt (nella realtà, Lucy, piccola diva,  è davvero la cagnetta della Reichardt), Mark e Kurt arrivano attraversando molti snodi fatti di involontari malintesi, di inconsapevoli battute che nascondono una potenziale mancanza di rispetto per l’altro della quale si accorgono sempre solo un istante dopo, quando rischia di essere ormai tardi, accompagnandosi sempre con la commovente volontà inespressa di volersi davvero bene e di accettarsi per quello che sono, in una diversità che è evidente sin da subito nel film, quando Mark è presentato come quello più stabilmente “posato” (una compagna, un lavoro, un figlio in arrivo, attività nel sociale) e Kurt quello più “Hippy”, sognatore, in cerca di una solidità che è il primo a non volere ma anche il primo a soffrirne per la mancanza.



    Due fantastici dialoghi, il primo nella notte all’addiaccio annaffiato di birra e tiro a segno contro i barattoli vuoti, quando Kurt tenta di esporre la sua teoria quantistica dell’universo, e quella in cui i due si prendono il loro bagno termale immersi in una natura in cui sembra quasi che sia vietato parlare, dove sempre Kurt (che, nella ripartizione dei ruoli,  è un po’ come la coppia di ruote trainante rispetto alla coppia di ruote passive, rappresentata da Mark), racconta del suo sogno con la donna indiana del negozio di PC, e dove il senso profondo di ciò che è “Old Joy” tenta di disvelarsi.
In mezzo a tutto questo (anzi: in capo e in coda a tutto questo), il “talk-show” radiofonico su temi politici, in cui l’America, rispetto alla quale Kelly Reichardt si pone giustamente con spirito indipendente, parla sostanzialmente di un vuoto che solo un’onestà privata e personale di ciascuno di noi con se stesso e col prossimo può riuscire a colmare.

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lunedì 8 dicembre 2014

Eventyrland (2013)


Il Paese delle Meraviglie (“Eventyrland”, in norvegese) non è più una fiaba. Al contrario: la fatica e la sofferenza con cui  le mani di un fata l’hanno ideata, costruita, pitturata e deliziosamente arredata, fanno della cameretta della piccola Merete il  luogo più concreto e tangibile del mondo, il Meraviglioso Paese cui  Jenny (la protagonista del film, una Silje Salomonsen ostinata e convincente, dolcemente fragile nella forza che il destino le impone di tirar fuori) ha dovuto rinunciare il giorno in cui la fiaba incantata del suo Grande Amore si è spezzata, e che cerca disperatamente di ricreare, lasciandola in dote per la sua bambina.
L’incipit del film è in un bosco silenzioso. Jenny e Gary, grosse tronchesi pesanti appoggiate sulla spalla di lui, tentano di dissimulare il nervosismo con cui stanno aspettando qualcuno, sperando che costui arrivi prima che faccia buio. Per Jenny  è l’occasione giusta per informare il suo ragazzo del fatto di essere incinta. Gary ne è felice, spunta una piccola fede rubata a chissà chi che presto si infilerà (quasi) per sempre nel dito di lei, in segno di rinnovato e rinforzato amore, prima che i due procedano insieme all’operazione per cui si trovavano lì, da soli, senza che la terza persona si sia fatta viva. Forzandone le catene che la chiudono, i due giovani, introducendosi in una grande serra, oltre ad un grosso fucile trovano ciò che stavano cercando, ma al posto di “innocente” erba da fumare, lo zainetto che aprono è pieno di droga pesante. Roba grossa, più grande di loro. Jenny esita, propone di mollare tutto, Gary invece pensa che presto avranno un bambino (già discutono sul nome da dargli), che hanno bisogno di danaro, la faccenda puzza anche a lui, ma forse conviene rischiare, son soldi. Nella serra irrompe qualcuno, qualcuno che non è la persona che stavano aspettando. Spari...
La fulminante scena-ponte color pastello di tenerezze scambiate tra una madre e la sua bimba appena nata che porta dall’incipit al corpo del film, musicata solo col rumore di  un battito cardiaco, postata di pochi secondi tra il sangue di un attimo prima e le sbarre di una cella di un attimo dopo, è il primo sigillo di qualità di questo bellissimo film norvegese firmato da Arild Østin Ommundsen, che è inaspettatamente un uomo. Dico così perché ritengo sia raro per un regista maschio concepire e realizzare un film così marcatamente al femminile: non solo Jenny ne è la protagonista, ma sua figlia, la piccola Merete che compare assai poco nel film ne è la corrispondente “materia oscura”, ciò che la vivifica e le da energia, movimento, sussistenza. E il tutto è immerso in un mare maschile fatto di “lui” : Gary, il fidanzato/padre (mirabile come, dopo oltre 20 minuti di morte  apparente, il regista sappia resuscitarlo agli eventi); il tipo che li ha fregati (a cosa servono gli amici, se non a rifilarti un tubo Pirelli dritto sulla nuca nei momenti critici?); la banda dei delinquenti che la ricatta e se ne fa scudo e gioco, fino all’idraulico, povero cristo che non c’entra niente con la storia, se non per essere uno dei mille che cerca di trarre profitto dalla povera Jenny e dai suoi stati di necessità.
Così come fa la colonna sonora (bizzarro uso, come nella scena dello zoo-safari in cui una musichetta domenical-festiva si protrae nei fotogrammi successivi, drammatici e tesi, con una continuità anomala e suggestiva), così Jenny attraversa la sua ostinata Odissea di eroina reietta e innocente fino ad un conclusione solo apparentemente paradossale, un “Happy-Ending” non conclamato, sicuramente da interpretare senza che sia necessario prenderlo alla lettera (si dovrebbe dire: al fotogramma), incentrato non a caso più sulla danza liberatoria e vincente della piccola Merete che non sui gesti improbabili del suo sventurato padre.

Molto bello.
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La Prima Volta


E così è stato.
        Quando scrissi la poesia “IlGiardino”, le volli subito bene. Forse perché voglio bene al mio giardino, alla mia casa in genere, la mia tana. O forse perché, attraverso quelle rime alternate,  infantili e sempliciotte, sentii subito che stava transitando efficacemente verso l’esterno il senso reale di ciò che covava nel mio animo. Che (dicono) sia ciò che veramente conta per una poesia e/o per il suo poeta.  Quando poi decisi di inviarla al primo concorso  cui abbia mai partecipato, venutomi a caso/non-a-caso... a cercare, lo feci con la più totale disillusione. Non a caso, appunto, mi definisco “PoEtaBeta”. E, colto dalla sorpresa di vedere “Il Giardino” classificarsi tra le migliori 15 poesie, selezionate tra un carnet di circa 300 (150 autori, partecipanti ciascuno con due opere), mi son dovuto lasciare spedire in orbita.
Vicino, vicinissimo: il Pianeta del Festival dei Due Parchi e del suo Quinto Concorso di Poesia organizzato dall’IPAEA è ad una frazione di anno luce infinitesimale lontano da qui, nemmeno 40 euro di treno andare e tornare: Ascoli Piceno (bella città: ruvida, primitiva, orgogliosamente  pietrificata... I Piceni, i Sabini, così erano e così sembrano essere ancora). Ci sono andato, e tornato, il tempo di uno scarno fine settimana, una missione spaziale lampo a cavallo tra due Parchi (Sibillini e Gran Sasso) e due Cieli  (quello pieno di sole di ieri mattina ad Ascoli e quello nero e ostile della Pesaro che mi ha ripreso solo poche ore dopo).
  Torno con una bella pubblicazione patinata, il mio nomecognome è scritto tra parentesi nelle prime trenta pagine. Un po’ mi voglio bene, come al mio giardino.  Un po’ mi odio, per non essere stato (ancora e sempre) in grado di cogliere i frutti che mi capitano a portata di mano, che potrei assaporare pienamente se solo sapessi avere meno paura.

Ad ogni modo: cin cin! 
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