lunedì 1 settembre 2014

Lettera ad un cane.

Ecco come risponderei a questa lettera ritrovata su facebook grazie alla condivisione di un amico:


     Caro amico a 4 zampe,
     rispondo rivolgendomi direttamente a te, anche se so benissimo che non puoi essere stato tu a scrivere quella lettera: conosco troppo bene la retorica umana, piagnucolante ed ipocrita, per non accorgermi che può essere stato solo un essere umano come me a metterti in bocca quelle parole.  Tuttavia sono certo che saprò esprimermi meglio avendo te come interlocutore, e non mi sarà difficile visto l’affetto che mi sforzo di nutrire (non so con quanto successo) per la tua razza e per gli altri amici animali.
...

         Mi sforzerò di non diventare anch’io retorico (non ci riuscirò, naturalmente): che lo so bene che mi hai morso mille volte, a volte mi hai anche ucciso, vigliacco, azzannandomi alla gola tu, insieme a tre o quattro dei tuoi simili contro di me che ero solo, ed ero magari solo un bambino, o un vecchio senza più forze.  Non te ne faccio una colpa, sia chiaro: se davvero devo trovare una differenza tra noi, quando osservo quello che a me pare essere ogni volta un meraviglioso prodigio allorché  vedo un uomo e un cane camminare insieme, è proprio questo: tu sarai sempre innocente, e io non lo sarò mai. Non fino in fondo, almeno. In questo (non offenderti se te lo dico) credo che i tuoi progenitori, i lupi, abbiano fatto una scelta più saggia della tua, restando a noi lontani e in qualche modo rivali, competitori,  se non a volte dichiaratamente nemici.
         Sai come me che tra noi non ci sono, e non servono “parole”. Ci sono solo sguardi e vibrazioni: la “parola”, che da Babele in poi è una condanna biblica all’espiazione della quale la tua razza è per tua fortuna (e giustamente) esente, non servirà mai a  nessuno di noi due per esserci fedeli e conservarci amici, al massimo servirà solo per consolarci un poco, e per me sarà comunque e sempre un peso in più rispetto a te da portare nel mondo.
       Ho pochi amici, pochi divertimenti parziali e incostanti, so già che perderò il lavoro di qui a quattro o cinque anni, e nessuno si occuperà di me quando sarò diventato debole e in vecchiaia. E tu, non è vero che hai soltanto me: hai i tuoi odori, le tue piste invisibili da seguire, le cose meravigliose che puoi vederti intorno grazie a quell’innocenza che l’uomo ha perso da tempo al contrario di voi animali. Hai gli altri cani che, quando li incontri, di me ti scordi subito, anche se solo per pochi istanti, mentre io non ho nessun sussulto, se non a volte di schifo e di fastidio, quando incrocio qualcuno dei miei simili.
E’ vero: la mia vita dura cinque, sei volte la tua. Se però vorrai considerare che io parto da oltre la metà del tempo a  mia disposizione (ho già più di 50 anni), capirai bene che, al punto in cui siamo, anche la statistica dovrà rivedere i suoi conti se vorrà indicarci correttamente quante saranno le volte che mi chiederà di piangere la tua scomparsa.
       Tuttavia non so se sia davvero il caso, per me, di rallegrarsene: vedi, qualche settimana fa ho accompagnato un mio carissimo amico gatto che aveva vissuto con me per oltre diciotto anni. Siamo stati insieme ad aspettare per una trentina di giorni, da quando la sua morte volle annunciarsi  in maniera inequivocabile, e quando è stato il momento del suo ultimo respiro io ero con lui, la mia mano sul suo cuore, e il suo corpo  adagiato sul mio. Ho potuto così conoscere la dignità con la quale affrontate la morte voi animali, e la differenza con la  miserabilità  di noi uomini comuni nella stessa circostanza, tanto che mi domando, e domando anche a te, se non sia io quello che abbia maggior ragione di chiedere all’altro di non abbandonarlo nel momenti critici.
       Non sai quanto ho trepidato in quei diciotto anni, quanto ho tremato di paura ogni volta che sentivo in me qualcosa che non andava, non so: il cuore che si mette a fare i capricci, o un capogiro, o delle volte che mi aggrappavo all’ultimo momento a una ringhiera per non cadere lungo le scale e rompermi così un osso e dover lasciare solo il mio micio mentre a me toccava stare in ospedale... Non sai quanta pena e quanta angoscia mi dava il pensiero che potesse rimanere senza di me, solo, tra queste mura.
       Eppure, ancora oggi, quelle angosce e quel dolore per la sua morte li sento preziosi, quasi necessari, come se la vita con quel gatto e l’affetto, l’amicizia perfetta che si creano in questi casi avessero trovato poi nel dolore finale  della separazione il loro reale compimento e la vetta più alta e sublime. Forse puoi capirmi: anche a te è successo a volte di perdermi, anche a te è stata forse necessaria, quella volta, la pena di venire tutti i giorni alla fermata del tram dove mi accompagnavi ogni mattina e alla quale non mi sono più ripresentato da quel giorno che il mio cuore si è spezzato all’improvviso. Fu anche per te un’esigenza di soffrire? O fu solo l’ostinata speranza di chi non sapeva? Non lo so...
         Da un po’ di tempo, sto pensando di venirti a cercare, ma hai ragione tu: devo pensarci bene. Devo capire se esisti, e chi sei tu, razza alla mia lontana mille secoli, se ti potrà piacere come stono al pianoforte, il fumo dei miei sigari, il mio odore. Se ti basteranno un guinzaglio alla tal ora che passeggiamo insieme, il bastone che vola infinito sulla spiaggia d’inverno,  il rincasare mesto, il malumore. Devo capire se sei pronto, pronto anche a perdermi, e quanto sono pronto io, perché nessuno è padrone di nessuno, e solo ad armi pari può girare la giostra di una vita insieme.
Con affetto.

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