venerdì 1 agosto 2014

In Morte del Fratello Giovanni - Epilogo


Non so cosa mi resterà di questa esperienza avuta con Giovanni: a calcolarla si fa presto, sono diciotto anni e undici giorni esatti, incastonati in quel settore della vita durante il quale un uomo raggiunge la maturità più piena. Per adesso mi resta un vuoto immenso, uno sgomento diffuso che si accumula come polvere in tutti quegli angoli della casa da cui lentamente vanno scomparendo le cose che gli erano appartenute e che davano la misura della sua presenza, un vuoto che atterrisce, un dolore sordo che si strozza nell’incredulità non ancora rassegnata al non  ritrovarlo dietro la porta che si apre, o in cima alla scala a chiocciola, che mi guarda dall’alto se rientro dall’interno,
oppure acciambellato in poltrona, che alza appena il capo per darmi il bentornato dando un lieve miagolio, del suo farmisi incontro tutte le volte, con la coda alzata; non so cosa sarà non avere una ciotola da pulire e riempire di nuovo, cosa sarà non dover più subire i suoi balzi in cerca di compagnia e conforto sopra di me che dormo, e che mi sottraevano sonno e riposo prezioso, e cosa saprò farmene di questa ritrovata “ricchezza”.  E di tutte le foto di lui, e dei video che giravo e poi montavo musicandoli, qualcuno con fare scherzoso, altri dal tono affettuoso, altri ancora che già all’epoca sapevo sarebbero stati la mia corona di spine in questo momento...

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Prima di seppellirlo avevo fatto qualche autoscatto con Giovanni accoccolato tra le mie braccia: sono immagini impressionanti. Ma voglio perdonarmi questo macabro “auto/feticismo”, sebbene capisca la debolezza del pensiero dal quale deriva, capisca la mia fragilità, il bisogno non troppo sano di conservare, accumulando, mille ricordi di lui, senza saper rinunciare neppure al ricordo di questo dolore, all’immagine di quegli ultimi giorni strazianti, della sua trascorsa, paziente e dignitosa agonia, della notte in cui ci siamo accompagnati a vicenda verso l’ultimo istante di vita insieme. E di quel sabato, primo giorno d’estate, in cui le carezze al suo corpo senza respiro scaturirono in me un affetto dalle altezze uniche e sino ad allora mai raggiunte, e che forse resteranno per sempre irraggiungibili.
Non so cosa mi resterà di quel gatto docile e tranquillo, che aveva paura  dei temporali e del vento forte, dai quali solo la sua ultima sordità lo aveva, per così dire, preservato, almeno nella fase della vecchiaia; di quel compagno elegante ed un po’ goffo, del suo aggirarsi quieto ed appagato per tanti anni sempre nelle stesse stanze, delle sue fusa appena udibili, del suo ostinato accontentarsi di me e delle mie poche cose fino ad esserne, o almeno sembrarne, quasi felice.
Non so ancora, e forse non saprò mai, se Giovanni, come spesso mi sono ritrovato a pensare, sia stato per me una generosa possibilità di riparare all’amore mancato con Simona, o se invece Simona sia stata soltanto il tramite che doveva dar vita ad una cosa diversa; e se questa “cosa diversa” era per me, oppure per Giovanni, anche questo non  so: non amo credere al destino, non so farlo, nemmeno a ciò che in qualche modo lo rappresenti o tenti di spiegare, dio compreso; e quando mi guardo alle spalle, consapevole della mia limitatezza, non riesco a vedere altro che non siano semplicemente le cose che sono già  passate, come Giovanni.
E non so se e come saprò ricostruirmi quella riguadagnata “libertà” che avevo avuto prima che venisse a vivere con me, non so nemmeno quanto più mi interessi: se tante volte in questi ultimi diciotto anni ho sofferto l’impossibilità, o quanto meno la difficoltà di allontanarmi da casa per periodi troppo lunghi nel timore di procurargli una qualche sofferenza, ora non so più  in grado di riconoscere quel  confine che prima mi appariva così netto tra la “libertà” e il doversi dedicare a un altro, a lui.

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Ho portato di sotto un po’ di cose, cose piccoline, che non c’è ragione di gettare fintanto che possano valere un altro, ennesimo ricordo. Avevo anche lasciato in giardino la ciotola con un po’ delle sue crocchette avanzate, convinto di darle così in pasto a qualche merlo che certamente, di buon mattino, avrebbe volentieri gradito assaggiare, magari appollaiandosi poi in cima all’alloro che sovrasta i piccoli fiori gialli sulla tomba di Giovanni per ringraziarci tutti e due con un bel canto.
Invece, è venuta a mangiarseli Dora.
Da quando non c’è più Giovanni a presidiare il territorio,  Dora mi si avvicina più spesso, e si lascia fare sempre qualche carezza in più rispetto al passato, prima di rivoltarsi soffiante fingendosi arrabbiata, da buona femmina di felino poco addomesticabile quale ha deciso di essere.  Ho come l’impressione che stia rinnovando a me quella richiesta di amicizia fatta a suo tempo, e inutilmente, a Giovanni.
Ed io credo proprio che l’accetterò.

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