domenica 23 marzo 2014

Ida

Sono due Agate, Agata Kulesza e Agata Trzebuchowska, le due pietre preziose incastonate in questo splendido “Ida”, bianco e nero polacco in quattro terzi (o quasi) che, chi ha una certa età, si stringe il cuore.
Silenzioso e lieve, come i fiumi addormentati del Gennaio cantato da Guccini, un ligneo Cristo trova dedita adorazione nell’incipit: Ida e le novizie consorelle lo posano e lo pregano nell’innevato giardino di un convento, prima che una zuppa calda le ristori.
Ma Ida ha un passato da seguire: sebbene affatto incline ai passi retroversi, anzi curiosa e pronta, e timida, e discreta, Ida ha una zia di nome Wanda, come il pesce, che chiama “cappuccio” il velo delle suore, ma non di tutte, solo quello della sua bella Ida. E bussa forte alle porte, la zia Wanda, cerca giustizia lei, giudice che manda a morte, che beve forte e poi guida l’automobile, e balla, e indossa perle, e a agli uomini, la zia, non nega le sue grazie prossime alla disperazione.

Interfacciate come meglio non si potrebbe, dentro inquadrature  tutte fisse ed asimmetriche (eccetto l’ultima, che palpita di passi frettolosi al futuribile ritorno) le due Agate si danno reciprocamente senso, non importa quale sia stata la causa o quale sarà la conseguenza, non c’è nessun bene e nessun male, nessuna passione, morte, resurrezione, nessun Cristo che vinca se non quello inconsistente e ligneo che guadagna i passi frettolosi della bella Ida che ritorna, dopo che, sciolti i capelli al mondo, aveva chiesto al mondo “E poi?” senza trovar risposta.

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