sabato 21 giugno 2014

In Morte del Fratello Giovanni #11

(Capitoli precedenti)

Il bacio dei gatti, così si dice, corrisponde al gesto con cui strofinano il loro naso sul tuo. Ma non tutti i gatti lo fanno: se Candela, a suo tempo, mi soffocava dei suoi baci sbavanti ai quali non riuscivo a sottrarmi se non allontanandola con perentorietà liquidatoria, Giovanni è invece un micio non-baciatore.
Capace delle affettuosità più disarmanti, delle carinerie anche involontarie più sdolcinate, di comportamenti così vicini all’umanità come il mettersi a miagolare forte, a una cert’ora, per chiamarmi ad andare a letto, l’accoccolarsi sulla mia spalla una volta infilati tutti e due sotto le coperte, i baffi che ti fanno il solletico, le zampine come ad abbracciarti,  tornando a starmi di fronte ogni volta che cambio lato rifiutando l’inaccettabile idea di dormire con me che gli do le spalle...

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Ma non mi ha mai baciato: anche nell’intimità più profonda, nei momenti di abbandono più intensi ed affezionati, non appena il mio nasone tenta di sfiorare il suo, lui gira un po’ la testa, appena quanto basta perché il rifiuto sia chiaro. Il suo massimo tollerabile, la sua vicinanza più prossima al bacio corrisponde al gesto di spingere la sommità della testa contro il mio mento, tenendola premuta con forza per diversi secondi.
Questa cosa mi ha fatto sempre soffrire, non tanto per me, quanto per lui, perché io lo so, lo so benissimo che vorrebbe baciarmi, solo che non ci riesce: qualche cosa di profondo, di lontano, di estraneo e cattivo,  qualcosa dentro di lui che non riesce a rimuovere e che pure spinge per uscire, spinge insieme alla testolina premuta con forza contro il mio mento, un ostacolo misterioso ed incurabile del quale non riesce a liberarsi, lo priva e priva me di quell’ultimo sigillo di amicizia profonda, quasi fraterna, che ci unisce.
A dire il vero, una volta, una sola, l’ha fatto. Lo ricordo quasi con pudicizia, un ricordo lontano di due o tre anni fa e così incredibile che tutt’ora mi ritrovo ogni tanto a dubitare che sia successo veramente. Ero seduto al computer, Giovanni sulla mia spalla, ronfante, la spazzola che lo percorreva da capo a coda intanto che io, con lo sguardo, seguivo probabilmente lo scorrere sul monitor di qualche filmato. Con l’attenzione rivolta altrove, non mi resi nemmeno conto, se non dopo qualche secondo, che Giovanni, senza nemmeno bisogno di attendere il mio solito inutile invito, lo aveva fatto spontaneamente: aveva strofinato il suo naso contro il mio. Restai a bocca aperta, lo guardai sbigottito, mi guardava, lo fece di nuovo, più timido della prima volta. Esplosi in un pianto che non riusciva a finire, stringendolo forte, una gioia che si spinse allora troppo in là rincorrendo il vano convincimento che fosse finalmente crollato un muro, finita una subdola schiavitù, spezzata la catena che  teneva legato lui, e me con lui, a quella fasulla austerità che sapevo e so di non appartenergli affatto.
Ritentai, sorridente e fiducioso, più e più volte nei giorni successivi, ma da allora la testolina di Giovanni si scosta sempre quel tanto che basta ogni volta che il mio nasone tenta di raggiungere il suo, gira  il suo sguardo poco più in là con aria interrogativa, come rammaricandosene, e forse si domanda anche lui, chissà,  se quel giorno sia davvero mai esistito.


(segue)
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